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QUI HOUSTON…

di Giuliano Masola. L’importanza di Houston, fono a pochi giorni fa, era legata soprattutto al fatto di essere un centro spaziale della Nasa. Vene ondata il 28 agosto 1836, poco dopo la vittoria del generale Sam Houston, sul generale Santa Anna. C’è un altro momento che ha reso famosa la città: la vicenda di Apollo 13, navicella spaziale, lanciata da Cape Canaveral l’11 aprile 1970. A oltre 320 mila chilometri dalla Terra, esplose di uno dei quattro serbatoi di ossigeno; i tre astronauti furono costretti a trasferirsi nel modulo lunare “Aquarius”, utilizzandolo come navicella per il ritorno anziché come mezzo per atterrare sulla Luna.  “Okay, Houston, abbiamo un problema” fu il messaggio che giunse dalla navicella il 13 aprile. Grazie all’abilità combinata degli scienziati a terra e degli astronauti a bordo, tutto si risolse positivamente dopo quattro giorni (credo che tanti abbiano visto il famosissimo film “Alamo” di Frank Lloyd, con John Wayne, e “Apollo 13”, di Ron Howard, con Tom Hanks). Da pochi giorni, però, un altro motivo ha messo in prima pagina la città texana: la vittoria nelle World Series: Gli Astros ‒ gli astronauti ‒ hanno conquistato le stella più importante nel baseball: le World Series, battendo i Dodgers. La squadra è stata fondata nel 1962, col nome di Colt.45s ‒ un nome che avrebbe dovuto incutere timore agli avversari, ma la pistola fece cilecca. La denominazione attuale, che risale al 1965, è legata al nuovo destino spaziale della città. Leggi tutto “QUI HOUSTON…”

Baseball, fra Storia ed Economia

di Giuliano Masola. Il 10 novembre, nella rubrica di Rai Storia “Passato e Presente” condotto da Paolo Mieli, con la partecipazione di Lucio Villari e di alcuni giovani dottorandi, è stata trattata l’origine della “Catena di montaggio”. La cosa che mi ha colpito ‒ e soprattutto colto impreparato ‒ è che l’origine di quella che si può definire la seconda rivoluzione industriale  viene dal Baseball. Frederick Winslow Taylor, nato a Germantown, Pennsylvania, il 20 marzo 1856 e morto a Philadephia il 21 marzo 1915, avrebbe potuto studiare a Harvard, ma la salute cagionevole glielo impedì. Nel 1874 fece l’apprendista operaio e ciò gli consentì di vivere e comprendere le dure condizioni di vita dei lavoratori. Grazie agli studi serali riuscì a laurearsi in ingegneria meccanica nel 1883. “One best way”, cioè il miglior modo per compire una operazione, era legato al concetto di specializzazione derivante dall’analisi dettagliata delle singole parti di un’azione. Lo sviluppo del suo pensiero è espresso in “Shop management” (1903) e, soprattutto, in “The Principals of Scientific Management” del  1911  (per chi volesse approfondire, Paolo Fabris,“L’organizzazione scientifica del lavoro”, 1967). Henry Ford partirà dalla teoria di Taylor per creare la moderna catena di montaggio: taylorismo e fordismo sono considerati quasi sinonimi. Non si hanno notizie di Taylor come giocatore di baseball; fu invece un bravo tennista e un buon giocatore di golf (quarto ai Giochi olimpici di Parigi nel 1900). La ricostruzione di Paolo Mieli si apre con un breve filmato in cui si vedono due lanciatori: uno che lancia da sopra (Giulio Glorioso) e l’altro da sotto (che non sono riuscito a individuare). Leggi tutto “Baseball, fra Storia ed Economia”

Desperado

di Giuliano Masola. Ascolta, stai facendo un grosso errore a occuparti di Baseball. È un gioco noioso, con tantissime regole; si sa più o meno a che ora inizia una partita, ma non si sa quando finisce. Ci vuole tanto, troppo tempo per imparare, a meno che non sia già nato con mazza, palla e guanto in mano. C’è chi sostiene che è un gioco di squadra, ma quando sei in battuta, o sul monte sei tremendamente solo. I campi sono sempre troppo corti, per cui se sbagli un lancio, la palla finisce fuori e gli avversari si fanno beffe di te. Se ti senti troppo forte in battuta, fai la fine di Casey. E poi, costa tanto. Pensare di farci i soldi, almeno da noi, è una pia illusione. C’è chi dice che è formativo, che insegna a fare squadra: ma quando si vede una squadra in cui tutti si presentano in orario agli allenamenti, o alla partita? Coloro che pensano che il baseball sia formativo, hanno solo da sperare nei miracoli. Quante volte abbiamo visto squadre vincenti disfarsi come la neve al sole. E la panchina cos’è: per tanti una maledetta sala d’aspetto. Non parliamo degli aspetti organizzativi, basati su un volontariato più insicuro dei contratti a termine. Il lavoro dei dirigenti è sostanzialmente incompreso, ma da loro si pretende la soluzione di ogni problema, sperando che il presidente trovi i soldi per il campionato. Fare programmi è una scommessa, per cui anche i migliori tecnici e preparatori sono costretti ad improvvisare, non sapendo mai chi ci sarà all’allenamento. Partite poche, con relativa sufficiente qualità. Si fa di tutto per avere impianti accettabili; talvolta si riesce ad averli, ma quasi nessuno ha la possibilità di gestirli senza far pesare sulla comunità almeno i costi di esercizio. Va da sé che di luci accese se ne vedono sempre meno. In tutto questo c’è un grande risvolto educativo: dare la colpa agli altri, al fato. Ciò si traduce in pochezza mentale, in banale stupidità. Come dicevano gli antichi “Beati monoculi in regno coecorum”, in un mondo di ciechi, chi ha un occhio solo trionfa, Ma c’è qualcuno che almeno un occhio ce l’ha? Problemi, però, non ce ne sono: basta sfogliare il catalogo delle aziende che forniscono materiali per rendersene conto. Ma dove sono queste aziende? On line, il più delle volte. Tutto è bello, attraente… e costoso. Stamattina parlavo con un tale, che mi ha detto che i tre figli che giocavano a baseball hanno smesso; lui però continua a interessarsene. Non so cosa facciano attualmente questi giovani, ma è certo che non hanno trovato quanto loro era stato detto all’inizio. In questi giorni in cui si comincia a programmare la prossima stagione, penso che più di un dirigente e allenatore abbia le mani nei capelli, se gliene sono rimasti. C’è da destreggiarsi fra tipologia di campionati e date di nascita e, soprattutto, fare i conti con la disponibilità finanziaria. Gli sponsor vanno e vengono, nonostante tutti gli accordi, anche formali. La crisi economica è un buonissimo e facile motivo, per lasciare. Si vive un po’ alla giornata, sperando nei miracoli. Si punta sulla squadra vincente, quella che  farà piovere un po’ di soldi in tasca. In aggiunta o in alternativa, c’è il campione del futuro: non ha ancora finito le elementari, ma si capisce subito cosa potrà diventare… a meno che non cambi sport (cosa non rara). In questo tantalico sacrificio, però abbiamo molte cose che ci alleviamo la fatica e aiutano a ben sperare:  coppe e controcoppe, Olimpiadi e Mondiali. Costano tanto, ma vuoi mettere il prestigio, se vinci? Peccato che anche gli altri vogliano vincere. Quando lavoravo in una grande azienda, ogni anno, proprio di questi tempi, si faceva il budget, cioè la previsione per l’anno successivo e un piano per quattro anni a seguire. Ovviamente, tutti parlavano di crescita senza soluzione di continuità. In uno dei tanti incontri, il capo delle vendite di allora disse: “Ma gli altri lo sanno?”, sottinteso “che vogliamo prendere le loro quote di mercato?”. Certo, noi questi problemi non li abbiamo; saremmo già dei signori se potessimo aprire un banco in Ghiaia. La cosa bella e interessante sarebbe quella di vivere la nostra “situazione disperata, ma non seria”, al modo di Totò o di Titina De Filippo, cioè con quell’ironia di chi, pur nelle maggiori difficoltà, sa cogliere il lato umoristico delle cose, parametrarsi senza falsa arroganza, ma anche senza remissività. Così in questo giorni in cui Oltreoceano le luci sono ancora accese, ci troviamo stanchi e intristiti, e dobbiamo dar fondo a tutta la nostra volontà per riprendere. Non è che non possiamo farci niente, è che non abbiamo idee, che anziché lavorare in gruppo, continuiamo a stare nel nostro orticello. Mah…

Giuliano Masola, 30 ottobre 2017

ps: Mi è costato molto ribaltare quanto espresso nella famosa lettera di Babe Ruth, che resta per me un costante punto di riferimento. Ormai quasi nessuno se la ricorda e, molto probabilmente non l’avrà mai letta. Forse, varrebbe la pena, fra le tante cose che scarichiamo da internet, cercarla. “Ascoltami Jimmy, stai facendo un grosso errore a non interessarti di baseball… poiché alla vita ti prepara…”

Una canzone per… Elio e Faso

di Giuliano Masola. Ci sono tanti modi per trovare una comune identità: la musica e il canto ne fanno parte. Il Baseball non ne è da meno: “Take me out to the ball game” è un emblema. Incredibile ma vero, il testo fu scritto nel 1908 da Jack Norworth e messo in musica da Albert Von Tilzer, nonostante nessuno dei due avesse mai visto una partita prima di scrivere la canzone. Chi ha avuto occasione di assistere a una partita negli USA, avrà certamente partecipato al “seventh inning stretch”, che ha origini presidenziali. William Howard Taft, 27° presidente degli Stati Uniti, era alto circa 1.90 e pesava oltre 130 chili. Nel 1914, in una partita fra i Washington Senators e i Philadelphia Athletics, al cambio del settimo inning, si alzò dalla sedia, per lui sotttodimensionata, per muovere un po’ le giunture. Tutti si fermarono fino a che non tornò a sedersi: il dado era tratto. Canzoni che richiamano il baseball ce ne sono tante; forse, una delle più conosciute è “Mrs. Robinson”, di Simon e Garfunkel, che rievoca quel “Jolting Joe” Di Maggio che ha fatto impazzire le folle. In Italia, ci sono stati alcuni tentativi di canzoni scritte per il nostro sport. Anche se non sono in molti a ricordarlo, Rita Pavone, nel 1971, cantava “Il ragazzo del baseball”, prendendo sputo dalla canzone di Norworth e Tilzer. A Renato Carosone, però, va ascritto il primato, con “Tu vuò fa l’Americano”, canzone composta con Nicola Salerno nel 1956. Il ritornello, che a noi appassionati risuona intesta come un mantra – “Tu abballe ‘o roccorol/ Tu giochi al basebal’/ Ma ‘e solde pe’ Camel/ Chi te li dà?/ La borsetta di mammà…” – è riuscito a passare da una generazione all’altra con estrema facilità. Altre canzoni, italiane o tradotte parlano di baseball; il più delle volte, però, fanno da colonna sonora a cartoni animati, come “Pat la ragazza del Baseball” (Le Mele Verdi), o “ Il Fichissimo del Baseball”, cantata da Alessandra Maldifassi. Nota significativa, nel 2013 è sorto la Baseball Gregg (Samuel e Luca): un nome un programma. Certamente non ci si può paragonare all’America In realtà, fino a pochi giorni or sono, molti di noi avevano, se non una certezza, almeno un gruppo di riferimento: Elio e le storie tese. Una band nata oltre trenta anni fa che ha visto in Stefano Belisari (Elio, il fondatore) e Nicola Fasani (Faso), i nostri portacolori. Le loro performance erano tese, come una linea spesso imprendibile; il loro pop rock “demenziale” ha spesso fatto da base per impegno sociale, soprattutto nella lotta contro la violenza. Pur non scrivendo e cantando canzoni per il Baseball )per quanto ne so), per molto tempo hanno unito la passione musicale all’attività agonistica: una battuta e un autografo sono stati quasi di prammatica. Non solo, Elio e Faso si sono dati molto da fare anche per cercare di mantenere il baseball vivo nell’area milanese, anche attraverso la possibilità data a tanti giovani di avere un luogo in cui giovare, imparare. Commentatori delle World Series per Sky hanno dato quel tocco di spensierato brio che fa la differenza. La notizia di pochi giorni fa, ahinoi!, è che la storica band si scioglie; l’ultimo concerto è previsto a Milano il 19 dicembre (dopo le World Series). Dopo tanti anni di lavoro e di esperienze comuni, in ogni campo, viene il momento di operare delle scelte, dettate talvolta dalla stanchezza, talvolta dal desiderio di imboccare nuove strade, più in linea con gli obiettivi personali. “È importante capire quando dire basta e passare a qualcos’altro – ha detto Elio – ci vuole l’intelligenza di capire di essere fuori dal tempo; youtuber, rapper, influencer, queste sono le persone che parlano ai giovani oggi… non serve a niente soprattutto se è in mano a gente che non sa neanche cos’è un do”. Sono parole che colpiscono, che fanno meditare. Non si tratta, infatti, di fare altre cose, imboccare nuove strade, si tratta anche di lasciare il testimone, nella speranza che ci sia qualcuno pronto a raccoglierlo. Il grave rischio è che chi “non sa neppure cosa è un do” lo raccolga e lo usi in modo improprio; tanti sono gli esempi in ogni campo. Non c’è mai un momento preciso, programmato, in cui si decide di cambiare, di lasciare il posto a un altro, ma che ci piaccia, o no, questo momento arriva. Stare oltre trent’anni insieme non è facile, poiché tanti sono i momenti in cui la fatica, nonostante i successi, diventa quasi insopportabile e i grandi entusiasmi iniziali vengono a scontrarsi con ragioni di carattere commerciale che, nonostante ogni sforzo, arrivano a prevalere. Decidere in modo consapevole è sintomo di saggezza e intelligenza, anche se quello è un momento di tristezza. Mio figlio, che ha assistito al loro ultimo concerto in Germania mi ha scritto che “Nulla ha più senso…, ma io a Berlino c’ero!”. Eppure un senso c’è: il titolo dato dal loro ultimo tour europeo, “Yes, we can’t”, a posteriori, si può tradurre con “Proprio non ce la facciamo più”, una sorta di messaggio, di avviso. Ora, mentre stiamo alzati la notte per vedere le ultime partite di Major League, certamente il pensiero correrà anche ai loro gesti, alle loro canzoni, alla loro dirompente voglia di fare una sorta di “commedia dell’arte in musica”, intesa a farci riflettere sugli inganni del “sogno quotidiano” e darci una spinta per il domani. Forse, il mondo del Baseball dovrebbe dir loro almeno un “grazie”. Giuliano Masola, Cannitello 19 ottobre 2017

 

Dedicato a…

John Montgomery Ward (1860-1925) è stato un grande giocatore degli anni Ottanta del XIX secolo. In particolare, ha lanciato la seconda “perfect game” delle Leghe Maggiori. Una volta sceso dal monte, è diventato un interno e il capitano dei New York Giants. Non solo, è stato anche uno storico – confutando la tesi che il baseball derivasse dal “rounders”, un antico gioco inglese – e fra i primissimi a scrivere un manuale. “Baseball. How to become a player” resta fondamentale, soprattutto per chi è appassionato di ricerche e curiosità storiche. L’introduzione è dedicata al mito e alla storia del gioco: dalle origini ai tempi moderni. Ciò che colpisce è l’attenzione di Ward al mondo femminile. “Chi non ha mai accompagnato una giovane signora allo stadio, dovrebbe farlo. Quando è lì, comincia a commenta rele azioni, esprime le proprie opinioni sui diversi giocatori, sull’arbitro, e su tutto quanto concerne il gioco: giudizi tanto divertenti quanto indimenticabili. La sua passione, però, può raggiunge la violenza verbale, per cui, se la sua squadra perde, il lanciatore avversario può diventare un mostro cattivo. Leggi tutto “Dedicato a…”