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Una canzone per… Elio e Faso

di Giuliano Masola. Ci sono tanti modi per trovare una comune identità: la musica e il canto ne fanno parte. Il Baseball non ne è da meno: “Take me out to the ball game” è un emblema. Incredibile ma vero, il testo fu scritto nel 1908 da Jack Norworth e messo in musica da Albert Von Tilzer, nonostante nessuno dei due avesse mai visto una partita prima di scrivere la canzone. Chi ha avuto occasione di assistere a una partita negli USA, avrà certamente partecipato al “seventh inning stretch”, che ha origini presidenziali. William Howard Taft, 27° presidente degli Stati Uniti, era alto circa 1.90 e pesava oltre 130 chili. Nel 1914, in una partita fra i Washington Senators e i Philadelphia Athletics, al cambio del settimo inning, si alzò dalla sedia, per lui sotttodimensionata, per muovere un po’ le giunture. Tutti si fermarono fino a che non tornò a sedersi: il dado era tratto. Canzoni che richiamano il baseball ce ne sono tante; forse, una delle più conosciute è “Mrs. Robinson”, di Simon e Garfunkel, che rievoca quel “Jolting Joe” Di Maggio che ha fatto impazzire le folle. In Italia, ci sono stati alcuni tentativi di canzoni scritte per il nostro sport. Anche se non sono in molti a ricordarlo, Rita Pavone, nel 1971, cantava “Il ragazzo del baseball”, prendendo sputo dalla canzone di Norworth e Tilzer. A Renato Carosone, però, va ascritto il primato, con “Tu vuò fa l’Americano”, canzone composta con Nicola Salerno nel 1956. Il ritornello, che a noi appassionati risuona intesta come un mantra – “Tu abballe ‘o roccorol/ Tu giochi al basebal’/ Ma ‘e solde pe’ Camel/ Chi te li dà?/ La borsetta di mammà…” – è riuscito a passare da una generazione all’altra con estrema facilità. Altre canzoni, italiane o tradotte parlano di baseball; il più delle volte, però, fanno da colonna sonora a cartoni animati, come “Pat la ragazza del Baseball” (Le Mele Verdi), o “ Il Fichissimo del Baseball”, cantata da Alessandra Maldifassi. Nota significativa, nel 2013 è sorto la Baseball Gregg (Samuel e Luca): un nome un programma. Certamente non ci si può paragonare all’America In realtà, fino a pochi giorni or sono, molti di noi avevano, se non una certezza, almeno un gruppo di riferimento: Elio e le storie tese. Una band nata oltre trenta anni fa che ha visto in Stefano Belisari (Elio, il fondatore) e Nicola Fasani (Faso), i nostri portacolori. Le loro performance erano tese, come una linea spesso imprendibile; il loro pop rock “demenziale” ha spesso fatto da base per impegno sociale, soprattutto nella lotta contro la violenza. Pur non scrivendo e cantando canzoni per il Baseball )per quanto ne so), per molto tempo hanno unito la passione musicale all’attività agonistica: una battuta e un autografo sono stati quasi di prammatica. Non solo, Elio e Faso si sono dati molto da fare anche per cercare di mantenere il baseball vivo nell’area milanese, anche attraverso la possibilità data a tanti giovani di avere un luogo in cui giovare, imparare. Commentatori delle World Series per Sky hanno dato quel tocco di spensierato brio che fa la differenza. La notizia di pochi giorni fa, ahinoi!, è che la storica band si scioglie; l’ultimo concerto è previsto a Milano il 19 dicembre (dopo le World Series). Dopo tanti anni di lavoro e di esperienze comuni, in ogni campo, viene il momento di operare delle scelte, dettate talvolta dalla stanchezza, talvolta dal desiderio di imboccare nuove strade, più in linea con gli obiettivi personali. “È importante capire quando dire basta e passare a qualcos’altro – ha detto Elio – ci vuole l’intelligenza di capire di essere fuori dal tempo; youtuber, rapper, influencer, queste sono le persone che parlano ai giovani oggi… non serve a niente soprattutto se è in mano a gente che non sa neanche cos’è un do”. Sono parole che colpiscono, che fanno meditare. Non si tratta, infatti, di fare altre cose, imboccare nuove strade, si tratta anche di lasciare il testimone, nella speranza che ci sia qualcuno pronto a raccoglierlo. Il grave rischio è che chi “non sa neppure cosa è un do” lo raccolga e lo usi in modo improprio; tanti sono gli esempi in ogni campo. Non c’è mai un momento preciso, programmato, in cui si decide di cambiare, di lasciare il posto a un altro, ma che ci piaccia, o no, questo momento arriva. Stare oltre trent’anni insieme non è facile, poiché tanti sono i momenti in cui la fatica, nonostante i successi, diventa quasi insopportabile e i grandi entusiasmi iniziali vengono a scontrarsi con ragioni di carattere commerciale che, nonostante ogni sforzo, arrivano a prevalere. Decidere in modo consapevole è sintomo di saggezza e intelligenza, anche se quello è un momento di tristezza. Mio figlio, che ha assistito al loro ultimo concerto in Germania mi ha scritto che “Nulla ha più senso…, ma io a Berlino c’ero!”. Eppure un senso c’è: il titolo dato dal loro ultimo tour europeo, “Yes, we can’t”, a posteriori, si può tradurre con “Proprio non ce la facciamo più”, una sorta di messaggio, di avviso. Ora, mentre stiamo alzati la notte per vedere le ultime partite di Major League, certamente il pensiero correrà anche ai loro gesti, alle loro canzoni, alla loro dirompente voglia di fare una sorta di “commedia dell’arte in musica”, intesa a farci riflettere sugli inganni del “sogno quotidiano” e darci una spinta per il domani. Forse, il mondo del Baseball dovrebbe dir loro almeno un “grazie”. Giuliano Masola, Cannitello 19 ottobre 2017