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Quando il “social” fa la differenza

di Giuliano Masola. Oltre cinquanta anni fa, nelle selezioni in vista dell’assunzione presso un grande azienda locale, occorreva fare un test attitudinale di informatica: c’erano quattro volumetti IBM da studiare. Inutile dirvi che il risultato per me non fu certo positivo. Eppure, poco più di un anno dopo avrei dovuto misurarmi coi calcolatori, nell’ambito del primo tentativo di programmazione annuale. Più che un incontro, uno scontro: trattandosi di una specie di prova, si poteva lavorare coi computer solo durante l’intervallo e occorreva trasmettere le istruzioni su schede che dovevamo perforare di persona con apposite macchine: quella sbagliate erano forse superiori a quelle corrette, coi risultati conseguenti.  Avevo un capo che univa una notevolissima intelligenza a un carattere altrettanto deciso e, alla fine, il risultato, certamente ambizioso per l’epoca, venne raggiunto. Il mio piccolo gruppo era sopportato, ma i “novellini” di informatica erano sottoposti a vere e proprie forche caudine: per “passare”, dovevano realizzare un programma funzionante dall’inizio alla fine. Ricordo una segnalazione “c07” che decretava il fallimento dei tentativi con i lazzi conseguenti. Nell’impero IBM, seppur a livello locale, funzionava così: l’area dei computer era una specie di “sancta sanctorum”, con tanto di sacerdoti e accoliti; tutto il resto fuori, lontano. Per tanti, troppi anni tale situazione è perdurata, per cui, pur avendo iniziato a usare pc fin dai primissimi modelli, è rimasto in me un senso di timore; insomma a un vero rapporto “friendly” non ci sono mai arrivato. Anche per questo, so schiacciare qualche tasto o poco più e non mi fido dei tanti programmi e applicazioni che hanno in “social” una specie di comun denominatore. Troppe sono le notizie false, inaffidabili, prive di una base documentata per convincermi a fare un salto di qualità: il sociale è una cosa troppo grande per essere bistrattato o asservito alle proprie voglie. Eppure, ogni tanto mi devo ricredere, poiché esiste la possibilità di ottenere grandi risultati attraverso i nuovi mezzi di comunicazione. Al Miller Park di Milwaukee, nella gara di apertura casalinga, il primo lancio è stato effettuato in contemporanea da Lenny Zwieg and Emily Nowak, nomi che non ci dicono nulla, che non compaiono nei roster. Eppure la loro vicenda vale la pena di essere narrata, poiché evidenzia quanto di buono si può fare insieme, socialmente. Circa un anno fa, Lenny Zwieg, padre di tre figli, si recò allo stadio indossando una maglietta dei Brewers, con la scritta “Dividi ciò che puoi” e inserì una foto su Facebook, scrivendo che da molto tempo cercava un donatore di rene. La notizia divenne virale subito dopo la creazione da parte di Emily Nowak di una lista intitolata “Aiutate uno sconosciuto”. Non solo, ma la stessa Emily decise di fare un test per vedere se essa stessa poteva essere la donatrice, pur non avendo nessuna parentela. Non riuscì, ma diede vita a una catena che permise a Lenny di avere un rene nuovo: l’operazione è avvenuta lo scorso novembre. Salendo sul monte di Brewers, la prima dichiarazione della Nowak è stata: “Siamo qui.

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A proposito di fuoricampo

di Giuliano Masola. Per parlare di fuoricampisti, o “sluggers” se preferite, occorre innanzitutto sapere cos’è un fuoricampo. La traduzione di “homerun”, infatti trae in inganno, poiché si può giungere direttamente a punto se la palla resta “inside the park”, cioè non supera la recinzione, e il battitore corre “da casa a casa”. Questo secondo tipo è probabilmente più spettacolare, poiché vi è un elemento di rischio per il corridore: la probabilità di essere eliminato prima di toccare il piatto. Guardando le statistiche (in primis quelle del Baseball Almanac) ci si rende conto, come, con l’evoluzione del gioco, degli impianti e delle attrezzature, a fronte dell’incremento dei classici fuoricampo, ci sia stata una progressiva riduzione di quelli interni. In questo caso si annoverano dei veri specialisti: Jesse Burkett “il Granchio”, ne ha realizzati 55 fra il 1890 e il 1905; Sam Crawford 51 (1899-1917), Tommy Leach 48 su 63 in carriera (1898-1918) e Ty Cobb 46 (1905-1928).

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Salvati dallo Slow-pitch?

Girovagando in internet, con le dovute cautele, si possono trovare tante cose interessanti. Una di questi è un filmato del 1924 che riprende una partita di baseball sul ghiaccio, dove si evidenzia la partecipazione soprattutto di ragazze. La palla, come si usava allora veniva lanciata da sotto: un giro di mazza e una gran corsa sui pattini da una base all’altra. Le scivolate erano praticamente automatiche, con attaccanti e difensori  che finivano distesi e abbracciati sul ghiaccio; le basi erano costituite da piccoli accumuli di neve, in modo da evitare infortuni. Si potrebbe pensare che è una storia vecchia, passata, ma in realtà non è così, poiché ancora oggi, nei college in particolare, si gioca sul ghiaccio come attività precampionato.  

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1949-2019, Un passo alla volta

di Giuliano Masola. Credo sia sempre importante sapere dove ci troviamo e perché. Nei manuali degli anni Sessanta-Settanta, si suggeriva agli allenatori, per prima cosa, di compiere un giro delle basi coi potenziali giocatori per far comprendere loro sia il percorso, sia la diversa visione che si aveva da ciascun punto del diamante. Quando si comincia tutto è difficile: anche i migliori giocatori di gerlo (o lippa) vanno in crisi. L’allenatore deve pur raccontare, spiegare i motivi per cui si gioca in un certo campo, in un certo modo, con termini che non sono esattamente quelli usati nei borghi e nelle piazzette. “Cos’è il baseball?” è la domanda ricorrente cui occorre dare una risposta semplice, se vogliamo pop, nel senso di “popular”, come un certo genere musicale. Anche in questo caso occorre partire da lontano. Gli antichi Greci nella loro impresa di colonizzatori, sentivano la necessità politica e religiosa di spiegare cosa c’era alla base della loro nuova città, in una nuova terra, per cui il mito fondativo legato all’”ecista” (cioè al capo della spedizione) e al dio o alla dea che li guidava, diventava fondamentale. La trasmissione orale trasformava rapidamente i fatti in racconti. Anche nel baseball la narrazione non è esattamente una puntuale descrizione degli avvenimenti per cui c’é chi afferra al volo la situazione (passando immediatamente da giornalista a esterno, si potrebbe dire).

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Metti Ichiro nel motore

di Giuliano Masola. Mi sarebbe piaciuto essere fra i 45 mila del Tokio Dome a vedere l’ultima partita di Ichiro, il 21 marzo, al termine del secondo di due incontri fra i Mariners e gli Athletics. Una volta il grande campione disse che era caratteristico dei Giapponesi spegnere le personali emozioni, ma questa volta la cosa è stata diversa. Certamente giocare da professionista ad altissimo livello fino a 46 anni non è cosa da tutti i giorni, poiché occorre associare al talento una costante cura di se stessi, sia fisco che mentale, e la capacità di sviluppare le abilità nel tempo, con quel po’ di fortuna che non guasta. Che di cognome faccia Suzuki pochi lo ricordano ‒ per noi la Suzuki è una moto dalle brillanti prestazioni, di quelle da impennata ‒ anche perché sulla casacca da pro delle Grandi Leghe c’è il nome di battesimo, quello che normalmente in Giappone viene designa il primo nato. E non il cognome.

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