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Un dubbio, forse di più

di Giuliano Masola. Diventa difficile parlare di baseball in questi giorni in cui tanti muoiono in balia dell’indifferenza. Ognuno di noi potrebbe essere su uno di quelle barche alla ricerca di una speranza che sbatte loro in faccia la porta. Ma dobbiamo farci forza, continuando a credere fermamente nell’Uomo, piuttosto che negli uomini, e provare ad andare avanti. È di poche ore fa la notizia che a Parma si svolgeranno le finali fra Europa e Africa per essere presenti a Tokio, alla “kermesse” olimpica. Certamente è una bella cosa, poiché ci permetterà di vedere un baseball di qualità, ma rischia di apparire la rappresentazione surreale di uno scontro, anziché la bellezza di un incontro. È facile girarci dall’altra parte e pensare che la colpa sia degli altri e che noi abbiamo fatto oltre il dovuto, anche nel baseball s’intende. Epicuro è uno dei filosofi più famosi e discussi nello stesso tempo; purtroppo l’essenza del suo pensiero è spesso travisata. Con i suoi adepti si ritrovava in luoghi ameni al di fuori della città, lasciando da parte la quotidiana lotta per l’esistenza, per cercare l’essenza delle cose e della natura umana, non tanto per godere i piaceri della vita, come pensano i più. E il baseball cosa c’entra? A primo avviso, nulla, ma forse occorre fare qualche approfondimento.

Come altre volte detto, se il “vecchio gioco”, partito dalla improvvisazione dei bambini, è diventato un “business”, qualcosa deve essere successo. Il motivo principale è stato l’affinamento progressivo di tecnica, regole, materiali e capacità coniugare le esigenze dei giocatori con le attese del pubblico. Il “Padre del Baseball”, Alexander Cartwright, nato a New York il 17 aprile 1820 e morto a Honolulu il 12 luglio1892, fu uno dei fondatori dei Knickerbokers (di “quelli che portavano i pantaloni alla zuava”) a New York nel 1845; non solo, poiché insieme alla squadra redasse un nuovo regolamento. Normalmente si ritiene che il baseball sia stato inventato da Abner Doubleday nel 1836 a Coopersown (ancora oggi meta del pellegrinaggio di milioni di appassionati), ma nel 1953 il Senato americano ne attribuì l’invenzione a Cartwright. “Alick”, proveniente da una famiglia inglese emigrata in America nel 1661, si trovò da un giorno all’altro costretto a inventare qualcosa, dopo che un incendio aveva distrutto la Union Bank, dove lavorava. Per giungere al baseball, partì da antichi giochi, come “rounders”, “round ball”, “townball” e “cricket”. Compendiare le regole di questi giochi ‒ che si sarebbero poi tradotti in un vero e proprio sport ‒ non fu una impresa facile. Innanzitutto si cominciò a fare una distinzione fra una battuta buona o foul e, soprattutto, si impedì l’eliminazione del corridore col tiro di una palla addosso, una palla che stava diventando sempre più “hard”. Per la stesura del nuovo regolamento Cartwright si avvalse in realtà di quasi tutto ciò che aveva elaborato William Rufus Wheaton del Gotham Club nel 1837; la vera novità era il cambio attacco/difesa dopo la terza eliminazione. William Cartwright fu molto abile, un po’ spregiudicato e fortunato, anche se la sua squadra non ebbe un gran bell’inizio: nella prima partita contro i New York Nine fu sconfitta 23 a 1. Non è certamente nello spirito yankee quello di arrendersi, soprattutto quello di fermarsi nello stesso posto, una volta esaurite le opportunità: la frontiera è sempre più in là. Il baseball certamente aveva delle prospettive, ma la California era molto più attraente: “the gold rush” ‒ la febbre dell’oro ‒  contagiò anche Cartwright, che però non riuscì a fare fortuna. La trovò nelle Hawaii, dove diventò consigliere del re David Kalākaua e della regina Emma; morì a Honolulu sei mesi prima della eliminazione della monarchia nel 1893 e dalla successiva annessione da parte statunitense (sarebbe diventata il 50° Stato dell’Unione nel 1959). Si potrebbe pensare che il “padre” avesse abbandonato il “figlio” ancora da svezzare, considerandolo quasi il frutto di un amore casuale. Eppure quel “caruso”, quell’orfanello, è riuscito a crescere, a farsi strada. E se oggi siamo qui a parlarne, significa che il suo successo è stato innegabile. Però qualcosa ci turba, qualche dubbio ci assale. Quante volte ne parliamo senza renderci conto di ciò che diciamo, a chi e cosa ci riferiamo?. Quando chiediamo ai ragazzi: “Sapete cosa è il baseball?” dovremmo prima domandarci: “Noi, lo sappiamo?”. Me lo chiedo costantemente, e ogni volta ho una risposta diversa, mai soddisfacente. Parliamo di un gioco di squadra, dell’espressione di valori di comunità, ma poi ne facciamo materia di scontro, di divisione, rischiando di chiuderci in confraternite. Ognuno ha la sua base, e fa di tutto per tenersela stretta: gioca in difesa, ma in difesa al massimo non si prendono punti e normalmente, non è previsto il pareggio. Scusate, ma nonostante mi trovi nella splendida Punta dello Stivale, oggi sono un po’ “upset”, come direbbe a chi comincia la giornata almeno sei ore dopo di noi. Il mio cuore, ansioso di bene e di pace, si ribella. Fortunatamente in questo mondo, che almeno per me, va controcorrente, ci sono parole chi mi aiutano, proprio perché vengono dal Baseball: «Se hai la possibilità di fare qualcosa che migliori la gente che ha meno di te, e non lo fai, butti via il tuo tempo su questa terra». A pronunciarle è stato Roberto Clemente, un grande campione scomparso il 31 dicembre 1972 su un aereo precipitato mentre portava aiuto alle popolazioni del Nicaragua, colpite da un terribile terremoto.

E noi?

Cannitello, 21 gennaio 2019