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Un diamante fra le stelle

di GiulianoMasola. Una grande e bella costellazione visibile nella tarda estate e in autunno intorno alla mezzanotte prende il nome dal mitico cavallo alato: Pegaso. Ciò che la rende facilmente riconoscibile è la sua particolare conformazione: il “Quadrato di Pegaso”. Delle quattro stelle che lo formano, una (Sirrah o Alpheratz ‒ “ombelico del destriero”), si trova al confine, nella vicina costellazione di Andromeda. Le altre tre stelle sono: Markab, la “spalla” del cavallo alato; Scheat, lo “stinco”; e infine Algenib, il “fianco”. Oltre alle stelle citate, vi è Enif, “il naso”. Gli antichi, che disponevano un cielo molto meno inquinato dell’attuale, osservavano attentamente le stelle e il loro moto, cercando un collegamento fra i loro movimenti e ciò che accadeva sulla terra. Noi moderni non siamo da meno, soprattutto quando vediamo qualcosa che richiama il diamante. Di conseguenza, qualche appassionato ha cercato di coniugare baseball e astronomia, attribuendo alle stelle del Quadrato posizioni e ruoli. Ha visto in Sheat la casabase, in Alphertaz la prima, in Algenib la seconda e in Markab la terza. Non solo, poiché si possono scorgere altre stelle nella costellazione, ha attribuito il ruolo di battitore a Sadal Bari, “la buona stella di chi eccelle”; ad Al Karab “la fune del secchio” quello di lanciatore, a Salm (non c’è una traduzione) quello di ricevitore, a Sadalpheretz “la buona stella dello stallone”, quello di suggeritore di terza, a Matar, “la pioggia”, quello dell’arbitro. I nomi delle stelle sono son in gran parte frutto della fantasia del mondo orientale, per cui non dobbiamo stupirci di ritrovare significati che possiamo attribuire al batti&corri. Un eccellente battitore sta sopra la media, un lanciatore non deve lasciar cadere la fune col secchio nel pozzo, cioè deve sapersela districare nei momenti difficili, mentre a un suggeritore di terza, viene chiesta una particolare capacità decisionale: arresta la corsa o manda a casa? Ciò che mi ha colpito in questa campo fra le stelle è il collegamento fra la figura dell‘arbitro e la pioggia. Sarebbe infatti riduttivo limitare il tutto alla decisione di giocare e meno  in caso di maltempo. Forse, ma questo gli osservatori antichi non lo potevano sapere, è legato alla pioggia di regole cui il giudice di gara deve attenersi e far rispettare. Talvolta, i malevoli, pensano che l’arbitro faccia il buono e il cattivo tempo, ma per quelli è preferibile l’iscrizione a un corso di meteorologia. In realtà la pioggia, se non si trasforma in grandine o in altri distruttivi fenomeni, è fondamentale per la crescita, per la sopravvivenza stessa. Leggi tutto “Un diamante fra le stelle”

Ricordando “il Bambino” Babe Ruth

di Giuliano Masola. Settanta anni fa, il 16 agosto del 1948, George Herman Ruth moriva per un cancro alla gola. Colui che, al di à delle classifiche, è considerato il più grande giocatore di ogni tempo, al momento della scomparsa aveva cinquantatre anni. Le sue ultime apparizioni sono del 1938 come manager dei Brooklyn Dodgers; pochi anni prima nei Boston Braves aveva indossato la casacca dei Boston Braves, venendo soprattutto utilizzato come attrazione. Forse, più che della sua incredibile carriera ‒ da ragazzo ingestibile affidato ai Saveriani della St. Mary’s Industrial School for Boys di Baltimora, sua città natale ‒ alle ultime presenze come giocatore, interessa quello che ci ha trasmesso. Babe e Bambino sono sinonimi: Ruth venne chiamato così nel 1914, quando partecipò allo spring training dei Baltimora Orioles, squadra allora militante nelle leghe minori. Il presidente della stessa si era preso la responsabilità di fare uscire il giocatore dall’orfanatrofio, per cui il giovane prospetto diventò “Dunn’s Babe”, il bambino di Dunn. Per noi è interessante il fatto che si usi bambino, in italiano; come accade in casi simili, è difficile stabilirne il motivo. Campanilisticamente, è bello pensare che tanti italiani di Nuova York facessero proprio quel giocatore che sapeva unire alle grandi gesta sportive, una umanità a tutto tondo, col suo comportamento, talvolta spiazzante, con le sue dichiarazioni non sempre puritane, col modo di gestire i rapporti personali. George Herman era un ragazzo che non voleva crescere, un po’ come Peter Pan. A chi un giorno gli chiese cosa avrebbe fatto da grande, rispose di essere tanto sconvolto dall’idea da rimuoverla. Gli interessava solo una cosa: giocare a baseball. Nonostante la grande carriera e i tantissimi soldi guadagnati e spesi, restava un fanciullo. Nella sua vita (fra le tante biografie suggerirei “My dad, the Babe; growing up with an American hero”, scritto dalla figlia Dorothy), George Herman Ruth ‒ e in questo traspariva l’antica origine tedesca ‒ non si preoccupò mai di nascondere o abbellire il suo passato, anzi si vantava, per esempio, di essere diventato un bravo calzolaio coi Saveriani, sottolineando sempre quanto padre Matthias, che gli aveva insegnato il baseball, gli fosse stato vicino.  Ciò che però fa di lui un grande del baseball, e non solo, è il suo cuore. Era portato alla esaltazione e all’esagerazione, restando però sempre se stesso. Probabilmente, il suo più importante lascito è una lettera che ormai da troppo tempo è stata messa nel cassetto da quelli della mia generazione e forse raramente letta da quelle che l’hanno seguita. Comincio, purtroppo, a vivere di ricordi, momenti di cui vi faccio partecipi, per cui spero di non annoiarvi se la ripropongo. Ascoltami Jimmy, stai commettendo un grosso sbaglio a non interessarti di baseball. “È il più bel gioco del mondo e ogni uomo dovrebbe sentirsi orgoglioso d’averci qualcosa a che fare. Non importa cosa; anche semplicemente sedersi sulle gradinate dello stadio e gridare alla squadra del cuore di farsi sotto e di battere un fuori campo. Per giocare a baseball occorre essere veri uomini. È il gioco più completo che si conosca al mondo e per riuscire bene occorre saper fare di tutto. Bisogna essere robusti e coordinati nei movimenti, bisogna possedere velocità, intelligenza, fegato e grinta. Soprattutto grinta ragazzo; perché se tu, anche per un solo attimo, mostri timidezza, i giocatori avversari ti spazzolano la testa con lanci velocissimi, i corridori ti fanno a fette con i ferri delle scarpe e le stesse riserve, in panchina, ti prendono in giro fino a distruggerti. In una partita di baseball non puoi mollare neppure un attimo. Devi spendere ogni briciola delle tue energie e devi usare, con la massima accortezza, il tuo cervello. Se tu sbagli una palla in aprile ti accorgi poi, magari in settembre che quella palla costa il campionato alla tua squadra. Non puoi permetterti mai distrazioni né rilassamenti. Quando sei alla battuta o corri sulle basi, ti devi rammentare che contro di te ci sono nove uomini in campo e un robusto cervello in panchina, quello del manager avversario, che cercano in ogni maniera di farti fare la figura dello sciocco. Non è mai esistito un gioco più adatto del baseball per misurare l’autentico valore di un uomo, quanto a fegato, prontezza, velocità, intelligenza. Il baseball è un gioco che assomiglia alla vita e che alla vita ti prepara. È un gioco di squadra e individuale nello stesso tempo. È un grande gioco. Ognuno di noi, che cammina nella vita, sarà più pronto ad aiutare un compagno se sul campo di baseball avrà imparato che un lanciatore può lanciare anche il suo cuore insieme alla palla e che qualcuno dovrà pur fermare in qualche modo le palle radenti e qualcun altro arrampicarsi sul recinto del campo per agguantare quelle al volo e poi andare a battere e fare qualche punto, altrimenti il lavoro del lanciatore non sarà servito a nulla. È come in una famiglia, in un gruppo di fratelli che lavorano insieme per raggiungere la stessa meta. È l’unico gioco al mondo che non hai bisogno di giocare per sapere quanto sia bello, nobile e leale”. Quanto sarebbe bello che quell’“Ascoltami” finisse per sfociare in un grido comune, in una volontà comune! Leggi tutto “Ricordando “il Bambino” Babe Ruth”

Vieni in USA!…No, tu no.

di Giuliano Masola. Chi ama il batti&corri si trova a proprio agio negli spazi aperti, idealmente senza una recinzione che li limiti. Il baseball ha bisogno di spazio, aperto in tutte le direzioni. Anche se esigenze pratiche finiscono limitarlo. Ai primordi del baseball, la grande area che si estendeva western barriere oltre gli esterni era chiamata “pasture”, un pascolo accessibile a tutti Tanti western ancora oggi si rifanno alla lunga e sanguinosa lotta fra allevatori e agricoltori, fra chi voleva spazi aperti il trasferimento delle mandrie e chi poneva recinzioni. Forse è anche per questo che in molti stadi, alle spalle degli esterni si ricostruiscano ambienti naturali, con rocce e cascate. In molti casi è il fiume, il mare, la ferrovia a fare da confine. C’è sempre uno spazio, una via di fuga, un punto di partenza. Tanti hanno begli occhi quel campo dei sogni, dove la barriera di granturco, a prima vista impenetrabile, in realtà collega passato e presente, fra sogno e realtà. Per quanto ci riguarda. è indubbio il nesso fra chi ha contribuito a farci recuperare la libertà, oltre settanta anni fa, e il fatto che ancora oggi si giochi a baseball: la foto del soldato che batte una palla su un campo improvvisato, dopo lo sbarco di Anzio, è emblematica. Le cose non nascono per caso. Poco dopo l’attacco di Pearl Harbour, fu proposto a Franklin D. Roosevelt di non far disputare il campionato per dare il massimo contributo allo sforzo bellico. Nella sua famosa “Lettera verde”, indirizza a Kenesaw Mountain Landis, Commissioner e giudice noto per le drastiche decisioni prese nel “Black Sox scaandal” (8 giocatori dei White Sox radiati), espresse il suo pensiero: “In tutta onestà, sento che la cosa migliore per il paese sia che il baseball prosegui…che tutti debbano avere una possibilità per divertirsi, sgombrare la mente dalle fatiche ancor più di prima…300 squadre e 5-6000 giocatori formano una struttura in grado di far divertire 20 milioni di persone”. In Giappone, al contrario, il campionato venne sospeso. Molti giocatori andarono in guerra e diversi vi lasciarono la vita. Quel terribile periodo, però, comportò dei cambiamenti in senso positivo; negli Stati Uniti, ad esempio, per sopperire alla mancanza di uomini, fu creata una Lega femminile (ricordate Ragazze vincenti?). Non solo: il combattere gomito a gomito ha dato una notevole spinta anche all’abbattimento delle barriere razziali: la presenza di Jackie Robinson nelle Major Leagues non è nata dal nulla. La guerra ha causato danni incalcolabili, anche per i vincitori; col senno di poi, sarebbe stato meglio sfidarsi in una serie di partite di baseball, anziché usare armi micidiali mai viste. L’America è un grande paese e per molti rappresenta ancora la meta di tanti alla ricerca di un futuro migliore. Il baseball è gioco e spettacolo, ma soprattutto business: si cercano talenti, per cui non si guarda certo né al colore della pelle, né alla provenienza. Le leggi che permettono il superamento dei confini sono sempre più severe. Nonostante ciò, il 30 % dei giocatori Major League non è nato negli Stati Uniti. Nel 2015, i Texas Rangers furano chiamati “la squadra delle nazionalità”, per la presenza di ben 15 giocatori non USA. Oggi, le trasmissioni radiotelevisive in diverse lingue rappresentano la normalità. Eppure, non è tutto oro quello che luccica. Sta succedendo qualcosa di inatteso, che sorprende e interroga. Pochi giorni fa, la formazione dell’Emilia Romagna ha conquistato la possibilità di andare alle World Series della Senior Little League, quale rappresentante della macroregione Europa-Africa (l’Africa dei clandestini!). Daniel Onceanu non è nato in Italia ma vive qui da quando aveva sei anni, è stato negato il visto per entrare negli Stati Uniti, senza una motivazione pubblicamente espressa; potenzialmente avrebbe potuto essere un immigrato illegale, se non peggio ‒ di questi ce ne sono già troppi ‒ e poi non aveva l’appoggio di qualche persona giusta (forse doveva passare dalla Florida). Daniel ha iniziato a giocare nel Poviglio, una società in cui ragazzi di tanti paesi trovano un importante punto di riferimento e coesione, facilitando la loro integrazione; un esempio in questo senso. Sono rimasto addolorato dalla vicenda, anche perché arbitro Daniel e i suoi compagni da sempre. Il problema dell’accesso negli Stati Uniti non riguarda solo le persone. Chi esporta negli Stati Uniti, soprattutto prodotti alimentari, si rende presto conto dell’impossibilità di conoscere il motivo dell’eventuale blocco di prodotti da parte dell’ente preposto: no match. Situazioni come quella del nostro giovane e bravo giocatore non facilitano le relazioni e costituiscono un limite notevole all’incontro e allo scambio, sia sportivo, sia culturale. Le barriere aiutano chi traffica sulla pelle altrui, contrariamente a quanto viene sbandierato, giocatori di baseball compresi. In questo momento, purtroppo, c’è chi, come il “presidente dal pelo rosso” (stomaco compreso), sta provando a mettere il silenziatore alla Campana della Libertà, sostituendola con la Colt della violenza. Il suo comportamento trova tanti seguaci anche da noi e i risultati li stiamo toccando con mano. Quanto accaduto mi ha fatto ricordare un paio di esperienze americane. Nel 2000 ho avuto occasione di recarmi negli States per lavoro, proprio nei giorni delle World Series fra Yankees e Mets, che però non sono riuscito a vedere (come ho invidiato l’amico Sal!). Nel 2008 vi sono tornato con mio figlio per una breve vacanza fra i diamanti. La prima volta, sbarcato all’aeroporto JFK di New York, ho superato i controlli quasi inossservato. La seconda, sceso a Boston, ho trovato due file: una snella per cittadini americani e una seconda per gli “immigranti”, sottoposti una verifica accurata, impronte digitali comprese, alla presenza diversi agenti armati. Il mondo era cambiato. Non credo che in casi come quello del giovane di origini moldave, ci si debba fermare a qualche riga; penso, infatti, che occorra avere la forza di porci domande, di cogliere segnali per ribadire un maggiore impegno, una superiore sensibilità e una grande disponibilità, per essere liberi di lanciare, battere, correre, e nono solo, senza confini. Mi rende particolarmente preoccupato e triste chi si oppone allo “ius soli” e contemporaneamente spinge alla violenza, scimmiottando tragicamente modelli lontani dal nostro humus culturale. Chi pensa di detenere il potere indossando i colori della cacarella e della bile, finirà per farci trovare in una situazione tristemente immaginabile, nonché maleodorante. Il baseball vero è tutta un’altra cosa. Come disse Jackie Robinson, “Non sono interessato alla vostra simpatia o antipatia…tutto quello che chiedo è che mi rispettiate come essere umano”.

 

giuliano, 1° agosto 2018

 

 

 

 

Toh… Ti invento l’arbitro!

di Giuliano Masola. Nei giorni scorsi ho avuto la fortuna di arbitrare un incontro di baseball internazionale. Pur trattandosi di un’amichevole fra squadre giovanili, mi sentivo un po’ in tensione. A mezza estate il numero di arbitri disponibile, già nettamente inferiore alle necessità, si riduce ulteriormente a causa dei tornei, così, appena arrivato da una breve vacanza in Calabria, mi sono presentato. Nonostante i contatti col baseball d’Oltreoceano esistano da sempre, probabilmente non abbiamo mai capito bene quanto siano importanti i simboli e il modo di approcciare le situazioni. Le squadre che giungono da noi si presentano sempre in campo con la divisa del loro paese (“USA”, “Cuba”, ecc). Oltre a ciò, la presenza della bandiera e l’inno nazionale sono fuori discussione. Per noi non è proprio così. In un paese come gli Stati Uniti ‒ risultato di genti di tutto il mondo ‒ il collante è rappresentato dalla Costruzione e dalla Bandiera a stelle e strisce. A ciò va aggiunta una visione che potremmo definire spettacolare (“business is business”), anche nello sport. Nell’ottica di assicurare il miglior equilibrio possibile, le partite devono avere una copertura arbitrale tale da offrire sicurezza nei giudizi. Sabato pomeriggio, poco prima dell’incontro, mi sono recato dal manager della squadra americana, con l’allenatore della squadra ospitante per presentarmi e prendere accordi sulle regole. A un certo punto mi chiede: “È solo?”. Rispondo di si, per me è una cosa ovvia, per cui non ci penso più. Dopo pochi minuti, però, il problema rispunta, poiché arriva la richiesta di avere un arbitro anche in base. Dopo un breve colloquio, si decide di metter in campo un americano che era in tribuna, probabilmente il padre di uno dei giocatori. Per molti anni nel regolamento è stato previsto che, in mancanza dell’arbitro, si scegliesse fra il pubblico una persona ritenuta competente e imparziale, per cui non ho fatto abiezioni: era una buona occasione per rendere l’incontro internazionale a tutti gli effetti. Come nei classici western, gli ho affibbiato la stella di vicesceriffo, pardon, di arbitro di base. Leggi tutto “Toh… Ti invento l’arbitro!”

4 luglio 1918, la “partita del Re”

di Giuliano Masola. Ci sono dei momenti, anche durante la guerra, in cui gli uomini si rendono conto di essere tali, riuscendo a passare dallo scontro all’incontro, magari attraverso lo sport. “La partita di Natale” del 1914 ha dell’incredibile. In una località delle Fiandre, alle primi luci dell’alba del 25 Dicembre la Terra di Nessuno ‒ 50 metri di terreno che dividevano le trincee inglesi e tedesche ‒ era sgombra; i cadaveri che fino alla sera prima giacevano senza nessuna sepoltura, non c’erano più. Dall’altro lato del fronte, sul bordo dei fossati in cui i soldati del kaiser si nascondevano, iniziarono ad apparire, una alla volta, delle fioche fiammelle, che in quella mattina senza sole e senza vento iniziarono a brillare. I tedeschi continuarono ad accendere candele, e alcuni andarono ad addobbare gli alberi intorno. Poi, una voce intonò una melodia e subito molte altre la seguirono: I tedeschi cantavano una canzone di Natale. Gli inglesi, deposte le armi, toltisi gli elmetti e alzatisi in piedi, risposero a quel canto ben noto a tutti: Stille Nacht, Silent Night. Leggi tutto “4 luglio 1918, la “partita del Re””