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Allunando

di Giuliano Masola. Ormai sta terminando l’anno che ricorda il cinquantenario dello sbarco sulla luna (col Montanara eravamo nel frattempo sbarcati a Ventimiglia, un posto molto più difficile da raggiungere, soprattutto per ritornare). Come mi ricorda spesso un tale, “la storia è storia”, sarà così. Quell’avvenimento ha dato lo spunto a Oriana Fallaci, giornalista e scrittrice di grande successo, ma non per questo amata da tutti, trasse spunto proprio da questo avvenimento per il suo libro “La Luna di Oriana” (Rizzoli, 1970). Si tratta di una sorta di intervista in cui si evidenzia la normalità di queste persone destinate a diventare un simbolo per tutta l’umanità. Mentre gli astronauti stanno tornando, il presidente Nixon va a Washington a vedere la partita di baseball, prima di imbarcarsi sulla Hornet, la nave che recupererà gli astronauti, per congratularsi con loro. Chi mantiene i contatti dal centro spaziale di Houston, invece, preferisce stare sul diamante: “A New York, la scorsa notte, Babe Ruth è stato definito il più grande giocatori di tutti i tempi e Joe Di Maggio è stato definito il più grande giocatore di baseball vivente. Mario Andretti ha vinto la Centomiglia di Trent ed è ora il primo corridore automobilistico degli USA. Armstrong, che ha lasciato le sue impronte sulla Luna ma che sta coi piedi in terra, si informa, anche a nome dei compagni, come vanno le azioni della Industrials. Persone normali, quelle che possiamo incontrare ogni giorno, di cui non riusciamo a immaginare cosa c’è dietro i loro modi di fare, quelle non concedono nulla alla spettacolarità. Come riporta la Fallaci, amano il barbecue e lo approntano con cura; poi, la domenica in particolare, seguono il baseball. Ed è proprio questo che fa compagnia agli astronauti nel lungo e rischioso viaggio: “Allora Houston non ha giocato ieri?”. Sembra incredibile quanto sia importante la quotidianità in ogni momento, in ogni dimensione. E quotidianità è anche l’euforia che viene del successo, che fa sembrare quei balzi sulla superficie lunare dei tentativi di danza di chi ha alzato un po’ il gomito. “Secondo me è più importante star bene, aver soldi, che comunicare con gli altri, e poi guardi: forse che le mie amiche di Roma mi comunicano qualcosa di più degli americani? Mi si dice: ma gli americani parlano solo di baseball, di soldi, dei prezzi al mercato. Bè? E in Italia si parla di qualcos’altro? Il mondo è tutto uguale, ormai, e allora tanto vale stare nel paese che ti offre più soldi e comodità”. Come è noto, la scrittrice ha preso delle posizioni molto precise, dure, praticamente senza appello in alcune occasioni, ma in questa cerca di mantenere un livello colloquiale, per quanto studiato (la Fallaci non lasciava nulla al caso). Le interviste di Oriana sono quasi leggendarie, criticabili forse, ma senz’altro attraenti. E il baseball ogni tanto scaturisce quasi automaticamente, grazie anche alla sua frequentazione e abitazione newyorchese. Ci sono dei brevissimi passaggi che sembrano lanci a effetto, quelli che ti fanno guardare stupito la palla che passa sul piatto. La descrizione dell’incontro con Pier Paolo Pasolini ne è un esempio; «Eccolo che arriva: piccolo, fragile, consumato dai suoi mille desideri, dalle sue mille disperazioni, amarezze, e vestito come il ragazzo di un college. Sai quei tipi svelti, sportivi, che giocano a baseball e fanno l’amore nelle automobili…”; in un paio di righe c’è tutto. Come detto il baseball è America, e viceversa, nonostante la compresenza di sport che attirano milioni di spettatori, come football, basket, hockey su ghiaccio, ecc. Penso sia noto a tutti quanto sia costata in lutti la guerra del Vietnam. Una guerra in cui anche le donne hanno partecipato, pur trovando atteggiamenti non proprio gentili: “Non ho nessun desiderio di rivederla, signora: perché la guerra non è ciò che lei crede. Non è…’come aveva detto Bill?’…una partita di baseball. Lo chieda a suo figlio, signora” (“Penelope alla guerra”, Rizzoli, 1962). Siamo d’accordo sulla grande differenza: nel baseball si eliminano gli avversari, non si ammazzano. Basta. Vi ho stufato, e avete ragione, ma  in fondo, pensate di essere a una partita, magari una di quelle che si trascina stancamente, una di quelle in cui tutti sperano che finisca il primo possibile, dove lo spettacolo, salvo qualche sprazzo, lo si vede solo tramite l’immaginazione. D’altronde, penso che l’inverno sia una sofferenza per tutti. Anche se guardi quella bella fila di libri, videocassette e dvd che potrebbero offrirti un po’ di aiuto, proprio non ce la fai. L’inverno è ancora lungo, anzi astronomicamente deve ancora cominciare. Così, speri di incontrare qualcuno per strada, uno di quelli che trovi normalmente in campo, per scambiare due parole:”cosa fai l’anno prossimo, giochi ancora, con chi sei…” e via così. Allora, come oggi, mi metto davanti a un foglio elettronico e lascio che la mente divaghi o meglio vaghi: potrebbe venirmi qualche idea geniale, mah! Per fortuna che è uscito un barlume di sole in questa giornata fredda. Sai che faccio: quasi quasi scrivo qualcosa di baseball: magari trovo qualcuno disposto ad annoiarsi insieme a me…

Giuliano Masola, 5 dicembre 2019.

Softball: in prima pagina!

di Giuliano Masola. Domenica 25 aprile 1971, Festa di S. Marco e della Liberazione, la prima pagina della “Gazzetta di Parma” era illuminata dal sorriso di una giocatrice di softball; nella didascalia non ne compariva il nome, però. Si trattava di una foto a colori di Giovanni Ferraguti, come introduzione all’articolo di Gian Franco Bellè, dall’emblematico titolo “La donna nello sport”. Il gentil sesso e lo sport”. All’interno del quotidiano. L’immagine della squadra dell’Astra e la foto di una scivolata riuscita completavano il quadro. Un’altra immagine, con tre giocatrici che prendevano una palla al volo ‒ “Il baseball è per le signorine?” ‒ era comparsa circa un mese prima. Il 1971 stava diventando un anno speciale, una stagione in cui le donne, a Parma, coglievano importanti traguardi. Per esempio, le ragazze della Pallavolo, che proprio nella stagione 1970-71 avevano conquistato lo scudetto, con Vincenza Forestelli, Susanna Belletti, Anna Maria Zaccarelli e compagne. D’inverno si tifava per le une, d’estate per le altre; si andava a braccetto (o almeno ci si provava), soprattutto si andava a ballare in compagnia. C’era voglia di fare, di andare, di sperimentare. Meno di una generazione era passata dalla riconquistata libertà; il vento turbinante e colorato del Sessantotto spingeva al cambiamento per cui era automatico che venisse la voglia di far qualcosa di nuovo, meglio se controcorrente. Mi sono lasciato andare.. .è l’arterio… Ma orniamo a bomba. Capita spesso, quando si fanno ricerche, si trovare ciò che non si cerca e viceversa. Quell’articolo non lo ho trovato io, ma uno dei primissimi giocatori della Pallamano, che sta cercando di ricostruirne la storia, a Parma. Quando ci si trova in situazioni come queste, è facile passare dal lei al tu, soprattutto fra sportivi, e scambiarsi informazioni; è il bello della diretta (personalità importanti, come Corino Catellani, prima ufficiale di gara nel batti&corri, è stato poi fra i dirigenti della pallamano). Una volta avuta l’immagine occorreva trovare la giocatrice: il mio nuovo amico mi aveva parlato di una certa Paola, ma non ne era certo. Così ho provato a contattare chi poteva darmi una mano; Anna Tiberti ha rintracciato, dopo qualche tentativo, Simona Bocconi, la ragazza dell’Astra in prima pagina. Di lì mi è venuta una idea: perché non rintracciare giocatrici, tecbiic e dirigenti di allora e, per così dire, ricostruire la squadra? Penso che potrebbe far piacere a tante e a tanti. Spesso gli “amarcord” sanno di malinconia, ma non è questo che si vuole. “Saudade” è una parola portoghese che diventa difficile tradurre, ma in buona sostanza è legata alla nostalgia, intesa come rimpianto, ma anche come desiderio di riavere ciò che si è posseduto: la giovinezza, l’amore, la libertà, la patria. Malinconia e nostalgia non aiutano nel nostro caso; non si punta al passato, ma a una ripartenza decisa. È proprio per questo che dalla esperienza acquisita e dalla volontà di superare gli ostacoli, dovrebbe emergere quel mondo nuovo di cui il nostro sport ha tanto bisogno. In mezzo secolo abbiamo avuto gioie e dolori, crescita e declino, una crisi che pare oggi irreversibile. La ricerca delel cause può essere importante, ma non risolutiva. Il baseball e softball. che nel 1971 andavano a braccetto, nel tempo si sono differenziati nelle regole, ma soprattutto concettualmente. Ciò ha portato a una divisione sempre più marcata per cui ci troviamo con “ognuno per sé e problemi per tutti”. Non so cosa si pensa di fare nei prossimi mesi e anni, ma certamente, se si vuole sopravvivere, occorrerà darsi da fare ancor più, soprattutto andando nella periferia per valorizzarne gli sforzi. Sono convinto, infatti, che ci siano persone con grande volontà di fare e buoni progetti da realizzare, ma che finiscono per arrendersi di fronte alla paura di un diniego o agli ostacoli della burocrazia. Certamente il controllo complessivo è importante, ma ciò non dovrebbe tale da tarpare le ali. Le nostre ragazze di allora possono insegnarci tante cose, contribuire a dare un nuovo slancio; alcune di loro sono ancora impegnate nello sport e ciò può essere un elemento importante; sappiamo quanto sia necessario entrare nelle scuole in modo organico e credibile, per esempio. I bambini sanno unire gioco e divertimento, adattando luoghi, tempi e regole; spesso li perdiamo proprio perché li costringiamo a mettere da parte il divertimento per far loro apprendere cose difficili. Le donne in questo campo ci sanno fare più degli uomini, proprio per la loro esperienza di madri, zie e nonne: diamo loro qualche possibilità di trasmetterci qualcosa, di mettere in campo esperienza e voglia di fare. Il desiderio, l’obiettivo, è quello di riuscire a organizzare un incontro aperto a tute quelle che allora hanno giocato e ora ricoprono altri ruoli per cercare quella freschezza di idee e ideali che il tempo ha fatto venir meno. Facciamo sì che le nostre “ragazze vincenti” ci diano una mano, visto che ne abbiamo tanto bisogno. Se ci riusciremo, in un colpo solo riuniremmo più generazioni di persone che, lasciata da parte la nostalgia, potrebbero sorridere al futuro. Simona con quella foto ha avuto il suo quarto d’ora di celebrità, considerando soprattutto che a softball ha giocato per poco tempo. Sono certo, però, che essere ricontattata le ha riportato il profumo dei diamanti, il divertimento, il calore delle amiche. C’è sempre una ragione per smettere, ma ce ne può essere una migliore per ricominciare; per questo bisogna privarci anche perché, come ha scritto qualcuna: “Il campo è il mio morosino, il fallimento è il mio ex. Mi sono sposata col gioco e impegnata al successo”.

Giuliano Masola, Cannitello, 24 novembre 2019.

Papillon

di Giuliano Masola. Nel 1969 (in Italia nel 1970) comparve nelle librerie “Papillon”, il libro autobiografico di Henri Charriere: il racconto della sua prigionia e dei suoi tentativi di evasione ‒ l’ultimo è riuscito nel 1945. Il romanzo diede spunto per l’omonimo film del 1973 e il “remake” del 2017. Il nomignolo dell’ergastolano derivava da una farfalla tatuata sul petto. Ci si può chiedere cosa c’entri tutto questo col baseball. Beh, un piccolo collegamento c’è: i commentatori di lingua francese usano papillon per indicare quella che è più nota come “knuckle ball, la palla di nocche. Penso che i tanti che hanno visto il film, avranno ben presente la sequenza in cui i prigionieri vanno a caccia di bellissime farfalle blu, dalle quali verrà tratto un prezioso e costosissimo colore (tranquilli, il danaro non finiva nelle tasche dei detenuti). Una farfalla, quindi, un insetto maestoso, dal volo erratico, imprevedibile, tale da sfidare le menti dei fisici. Un volo che viene continuamente studiato per poterlo trasferire ai velivoli (in particolare militari). La palla di nocche non è facile da lanciare e ogni lanciatore la spedisce la battitore in modo diverso. Non si tratta di un lancio veloce: la palla praticamente non ruota e finisce per cadere. Oltre al battitore, ricevitore e arbitro vanno in crisi: dove finirà il lancio, come e dove passerà nella zona dello strike? La knuckle ball ha origini lontane nel tempo. Pare che il primo a eseguire questo lancio sia stato Thomas H. “Toad” Ramsey dei Louisville Colonels (American Association) fra il 1885 e il 1890. Certamente la palla di nocche era nel repertorio di Andy Cicotte, lanciatore destro coinvolto nel Black Sox Scandal del 1908 (da cui “Eight men out”). In tempi più recenti, maestri del knuckle sono stati Phil Niekro, Charlie Hough e Tim Wakefield. Il lanciatore che più di recente ha mostrato abilità in questo lancio è Steven Wright (Red Sox): purtroppo la sua carriera è stata segnata da squalifiche anche pesanti. Come detto, i battitori di fronte ai “butterfly” vanno in crisi, per motivi psicologici secondo il fisico americano Robert Kemp Adair, ciò è dovuto ai limitati tempi di reazione della mente umana per cui colpire la palla è sostanzialmente una questione di fortuna. Certamente c’è della verità, soprattutto che i battitori si allenano in modo particolare quando sanno di dover affrontare un lanciatore di nocche. I lanciatori di knuckle sono sempre più una rarità per due motivi: gli scout sono prevalentemente orientati alla velocità e alla potenza, oltre a ciò c’è una difficoltà tecnica. Per riuscire a padroneggiare questo lancio ci vuole molto tempo: un anno solo per impugnare correttamente la palla: non c’è velocità e potenza, per cui c’è tutta la meccanica di lancio che va adattata. Una volta imparato, si può fare in modo che la palla danzi, volteggi, devii e finisca per tuffarsi verso un ricevitore non certo di poterla afferrare correttamente. Gli occhi del battitore, ma non solo i suoi, cercano di seguirne l’erratica traiettoria, cercando il momento migliore per sventolare la mazza. Una bella sfida, un delle tante sfide che il diamante ci riserva. Anche il pubblico va in crisi: la lentezza del lancio e il suo procedere verso il piatto aumentano la tensione: l’attesa può diventare quasi spasmodica. La “farfalla” incanta, tenendo tutti col fiato sospeso. La farfalla è imprevedibile, inafferrabile, spesso di una bellezza sorprendente. Siamo abituati a vedere negli stadi delle Grandi Leghe animali di tutti i tipi, scoiattoli, gabbiani, torme di moscerini, perfino orsi. A metà dello scorso settembre però, si assistito allo show di una farfalla, al Roger Centre Field di Toronto, nella partita fra i Blue Jays e gli Yankees. Ali variopinte unite a un volo elegante hanno messo in scena una specie di danza, posandosi sul guanto di Zack Britton, rilievo degli Yankees, e lasciandolo al momento del lancio. Non solo: prima della partita aveva volato fra diversi giocatori di Toronto, posandosi alla fine su una gamba di Vladimir Guerrero jr.: voleva entrare a far parte della squadra! È stata definita la più bella immagine della settimana. La bellezza, quando si unisce all’eleganza è qualcosa che conquista. Conquista i battitori che cercano di inseguirla, spesso invano. Perché parlare di farfalle? Un po’ per la stagione che ci impedisce di andare in campo, un po’ di distinguerle dalle lucciole e dalle chimere. Questo è il periodo in cui ogni società fa il punto e si prepara alla prossima stagione, in cui occorre fare i conti coi numeri: in quanti siamo? Ce la facciamo a metter in piedi una squadra? Quante squadre complessivamente avremo? E da lì tutto il resto. Occorre, come sempre, rendersi conto della realtà: numeri piccoli e costi grandi, con sempre  minori possibilità di trovare finanziamenti. Questo non ci deve far “sfarfallare”, ma cercare di far entrare la palla nella zona che più ci si addice, con l’abilità che ci ritroviamo: volare basso non significa rinunciare a grandi obiettivi, anzi permette di utilizzare la mente al giusto ritmo. “Non puoi startene seduto sugli allori e ammazzare il tempo con giocherellando in campo. Devi lanciare la palla su quel dannato piatto e tener conto che l’altro ha la possibilità di colpirla; è per questo che il baseball è il gioco più grande”. Proviamo a lanciare la nostra “farfalla”: la bellezza vincerà.

Giuliano Masola, 6 novembre 2019.

2020, Parma e non solo

di Giuliano Masola. L’anno prossimo è già cominciato; il cammino di “Parma Capitale della Cultura 2020”, è iniziato da tempo, anche si stanno facendo le corse affinché tutto sia pronto. Si tratta di un grande impegno collettivo con l’obiettivo di uscire da un endemico provincialismo. Correggendo una nota news, tutto è pronto a 360°. Meno uno. In effetti, per quanto mi risulta, al prossimo appuntamento il nostro amato baseball (softball compreso, anche se qualcuno storce il naso) mi pare proprio non si presenti. Certo, ci saranno i classici e consolidati tornei, ma nulla più. Diciamocelo francamente, a noi le ricorrenze non piacciono, non le capiamo. Come diceva un tale, “non capisco, ma mi adeguo”.

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Grazie Gibo!

di Giuliano Masola. Sono passate ormai tre settimane dalla conclusione delle Qualificazioni Olimpiche di Baseball. Ci toccherà fare da spettatori (via TV, nella maggioranza dei casi), ma anche questo fa parte del gioco. Di questi giorni più che intensi, mi sono rimasti impressi tre immagini, tre fatti di quelli che lasciano il segno. Il primo è quella di arbitro in lacrime, che come ha detto un amico, “piangeva come una fontana”. Ricorderete senz’altro ‒ o almeno avrete avuto notizia ‒ del triplo gioco con l’Italia ha vinto col Sud Africa. Una giocata nata da una palla non ben vista dall’arbitro di casa base, che l’ha dichiarata buona. Purtroppo, per una giocata del genere non era previsto l’immediato replay e non c’è stato nulla da fare: si è trattato di una decisione arbitrale inappellabile, ma si si trattava di un foul, di una palla morta… Ciò è stato notare all’arbitro immediatamente dopo la fine della gara. Per chi si sacrifica tanto per raggiungere certi livelli si è trattato di un risultato più che amaro: tutto gli è crollato addosso.

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