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Il Mondiale della buona volontà

di Giuliano Masola.Nel 1970 l’Italia si presentò ai Mondiali in Colombia; nello stesso anno il Montanara era in Serie B; unica cosa in comune è stata una vittoria a testa; certo, di diversa importanza, ma questa la storia è questa. In realtà c’era un’altra: la disponibilità a sacrificarsi, personalmente e finanziariamente pur di dimostrare la propria volontà di esserci, di far bene. In questi giorni, mezzo secolo fa, l’avventura degli azzurri fu qualcosa di magico, sorprendete.

Erano trascorsi poco più di vent’anni dal primo “Play ball!” ed eravamo là a sfidare le squadre migliori, quelle dei maestri. I colombiani cercarono di ospitarci al meglio, anche con l’ausilio di figli e nipoti di emigrati: Alfredo e Silvana Mainero erano addetti alla nostra Nazionale, mentre altri facevano parte dell’organizzazione (Benedetti, Emiliani, Savigni). Le trasferte rappresentano sempre un’avventura per cui le testimonianze hanno una particolare rilevanza. “Partenza da Roma, primo scalo a Madrid; poi vento è brutto tempo non permette atterraggio. Da farsela addosso: era il primo viaggio in aereo e il pilota prova più volte ma non riesce. Quindi si va a Barcellona. Il giorno dopo si riparte e in viaggio c’è un vuoto d’aria; ero in piedi e mi trovo sul soffitto dell’aereo. Finalmente arriviamo a Baranquilla, di notte tardi. Ma la nostra destinazione era Cartagena. Quindi….. autobus di notte! Era un camion strutturato ad autobus senza finestrini. Durante il viaggio ci fermiamo più volte per animali vari sulla strada (se così si poteva chiamare). Arriviamo in albergo. C’era caldo e il condizionatore era un ventilatore (ventola da camion). Pazienza. Dopo ore di viaggio ci stava bene una bella doccia. Solo acqua fredda e cucarache (scarafaggi) in tutta la doccia. Questo è stato l’arrivo. Alla mattina ci alziamo è la piscina era verde sporca indecente. Allora Notari ci ha fatto mettere in un albergo decente meno male. Io ero in camera con il mio grande amico Meli. Una mattina, non ricordo con chi ero, abbiamo fatto una passeggiata per Cartagena e abbiamo trovato un “signore” con un fisico incredibile ma rovinato sia in viso che nel resto del corpo. Vendeva con un carrettino delle arance. Un po’ commossi gli abbiamo dato ‒ non ricordo ‒ penso qualche dollaro. Lui ci ha lasciato il carretto che poi naturalmente gli abbiamo reso. Per i mondiali il rimborso è stato il biglietto andata e ritorno a Roma: ‘to’ là!’”. La comitiva era composta di 22 persone, di cui 18 giocatori; fra questi quattro parmigiani: Castelli, Gatti, Jaschi e Ugolotti; c’era anche Giacomo Bertoni che l’anno dopo avrebbe lanciato coi colori ducali. Fra i presenti, erano indicati solo due esterni: Meli e Ugolotti; il terzo veniva scelto ad ogni incontro (è toccato anche a Castelli ricoprire questo ruolo). Il massaggiatore non faceva parte della comitiva azzurra, per cui venne prestato dai cubani: svolgeva il proprio compito con un avana in bocca. Un po’ di umorismo fa sempre bene. Sull’ultima pagina de“L’Universal”compare una serie di vignette; nella prima vi sono disegnati quattro giocatori: il primo che batte con una canna da zucchero (Cuba), il secondo con una “bola de spaguetti” (ovviamente Italia), il terzo con un tamburo come portamazze e il quarto con una mezza noce di cocco come caschetto. Una kermesse mondiale è soprattutto un luogo di incontri di, di trattative. In quella competizione partecipava un certo Carlos Guzman Bocaletti fra le fila del Guatemala, che è stata un po’ la squadra rivelazione del torneo. L’anno dopo avremmo visto Cabrito in Italia fra coi Black Panthers di Ronchi dei Legionari; nel 1974 Guzman avrebbe vestito la casacca ducale: su di lui si potrebbe scrivere un’enciclopedia. Nel 1970 USA e Cuba si contesero la vittoria. Nel primo incontro vinsero gli americani, grazie a una serie interminabile di smorzate: alla fine un tiro sbagliato in prima permise loro di vincere; la finale, però, fu tutta cubana. Ancora oggi la Colombia ci pare un mondo lontano, poco conosciuto; immaginarsi cinquanta anni fa. È difficile capire l’emozione dei partecipanti di allora, il loro spirito, la consapevolezza dei propri limiti, ma anche delle grandi possibilità di conoscere, di confrontarsi, di fare durature amicizie. Spesso ci dimentichiamo di una espressione che le nostre mamme ci hanno ripetuto: “Impara a stare al mondo!”. Si trattava di comportarci bene in un mondo piccolo, come avrebbe scritto Giovannino Guareschi, ma per noi tanto vasto. Un modo che conoscevamo soprattutto attraverso la geografia ‒ chi non ha fatto a gara sulle bandiere e capitali dei diversi paesi? – dagli album sugli animali e simili. Giornali, cinema e televisione facevano il resto. Tornando a casa i nostri eroi portarono con sé anche un po’ di cultura colombiana. Una cultura che si è fatta conoscere gradualmente, attraverso la ricerca archeologica ed etnografica. In questa fase, la letteratura ha avuto un grande ruolo. Gabriel Garcìa Màrquez, il maggior poeta colombiano, non ha scritto solo romanzi. In “Un giornalista felice e sconosciuto” parla dell’America Latina, in particolare dei problemi degli emigrati italiani che speravano nei miracoli e che spesso dovevano ricredersi. Ma questa è un’altra storia. Per il nostro baseball a Cartagena e Barranquilla iniziava una grande stagione, di cui tanti ancora oggi provano nostalgia e rimpianto. Ma, come ha detto Màrquez. “Non piangere perché è finita. Sorridi perché è successa”.

Giuliano Masola, 23 novembre 2020