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Scrivere: a che serve?

di Giuliano Masola. In tanti mi chiedono se sto scrivendo un libro sul “batti&corri”o se ne ho l’intenzione. Alla prima domanda la risposta è no, alla seconda si. Idealmente sarebbe facile, una volta scelto l’argomento, ma il difficile è proprio qui: quale? Il rischio di essere troppo tecnici o troppo generalisti pesa come una spada di Damocle. I più attenti, hanno certamente percepito che sto conducendo una sorta di sperimentazione attraverso la pubblicazione giornaliera di immagini (foto, ritagli di giornale, oggetti ricordo (“memorabilia”) e simili.

Le reazioni sono diverse, strettamente legate all’esperienza personale e alla distanza temporale con quanto mostrato: c’era?, era prima di me? Dove?, ecc. L’immagine, a ben pensarci, è la forma di scrittura cui oggi siamo più legati e, sotto certi aspetti facilita. Ciò è vero, però, se all’immagine si aggiunge una annotazione, una didascalia che riporti a quel momento, a quella sensazione provata. Mi sto accorgendo che ciò è normalmente una impresa ira di difficoltà. Tutti abbiamo tantissime foto, anche se magari ne abbiamo perse un po’. Oggi sono soprattutto sottoforma digitale e ci accorgiamo che ne possediamo tantissime quando il pc o il cellulare ci ricordano che abbiamo superato la capacità di magazzinaggio (e ci propongono l’acquisto di memoria in più nel contempo). Una foto parla, ma non scrive, e questo è il punto. Scrivere è difficile e lo sa bene chi tutti i giorni lo fa per mestiere (pensiamo a un giornalista); soprattutto ci sono tanti modi di scrivere, dalla email alla pergamena. Oltre a ciò, ogni attività ha un suo linguaggio. Personalmente, faccio molta fatica con la linguistica, ma amo conoscere l’origine delle parole e i glossari. Ancor prima di rimettermi a studiare, ho cercato di tradurre testi americani e canadesi sul baseball (nel softball non mi sono mai avventurato): una difficoltà per me enorme, compiuta assieme ad amici che ne sapevano più di me. Contemporaneamente il numero dei libri acquistati aumentava e, fortunatamente, alcuni contenevano un glossario a fine testo: Eureka! Ciò ha facilitato il compito, ma non è stato sufficiente. Una mano è venuta dalla pubblicazione proprio di un glossario illustrato, a puntate su “Tuttobaseball” da parte del compianto Giancarlo Mangini. Insomma, in qualche modo ci si saltava fuori. Ma una volta compreso il testo, occorreva tradurlo in un italiano corrente comprensibile a tutti, anche a chi non conosceva il nostro gioco. Un lavoro tutto fatto in casa, approfittando in particolare delle vacanze, visto che il lavoro mi lasciava ben poco spazio. Tradurre significa trasferire non solo un testo, ma anche un modo di pensare l’obiettivo, quello che gli americani chiamano “philosophy”. Forse è per questo che sto scrivendo, per cercare di immaginare un obiettivo e provare a coglierlo. Autori di libri non tecnici che parlano di baseball ce ne sono tantissimi, il più delle volte legate a biografie o a certi particolari avvenimenti. In tanti, invece, il vecchio gioco è citato quasi sotto traccia, rivelando una intensa connessione col quotidiano, con quel mondo composito alla ricerca di una nuova frontiera. È il mondo che l’America vive, in particolare nell’Ottocento, quella in cui i miti si costruiscono, insieme al baseball. Proprio da questo connubio nascono quelle parole e frasi che tanto spesso sono rimaste nell’uso quotidiano, quelle che permettono di scrivere in modo fotografico si potrebbe dire. Forse da questa parte dell’Atlantico non siamo riusciti a costruire un linguaggio, soprattutto dei miti in grado di accomunarci. I motivi sono diversi, ma credo che quello principale sia stato il non riuscire a fare una vera squadra, salvo rare occasioni. Mi fa sempre piacere che qualcuno mi scriva, anche per darmi delle bacchettate se lo ritiene, poiché ciò porta al confronto. Certo possiamo anche scambiarci delle foto, così come si fa con le figurine, ma il rischio è quello di fermarsi lì. Proprio per questo occorre mettere nero su bianco, esporre le proprie idee e considerazioni. E si può farlo anche in modo ironico, simatico; non lo si deve fare in modo offensivo. Nella piazza virtuale dei “social” il linguaggio è un po’ troppo spesso di bassa lega (una volta si diceva da osteria), per cui suscita reazioni forti, epidermiche, trasferite con qualche “tweet”. Se lo stesso scambio di opinioni fosse messo nero su bianco, specialmente scrivendo a mano (ma chi non si ricorda come si fa?) le espressioni sarebbero diverse, con risposte maggiormente meditate, più vicine a un vero confronto. Per scrivere bisogna leggere tanto e cercare di capire che lo scambio è ciò che ci tiene insieme. Popoli interi sono riusciti a sopravvivere, seppur dispersi proprio grazie alla scrittura. Proviamoci anche noi, piccolo popolo, poiché come si trova su un documento armeno del 1391, “Per lo stolto il manoscritto non vale niente, per il saggio ha il prezzo del mondo”.

Giuliano Masola, 21 agosto 2020