di Giuliano Masola. “L’amore ai tempi del colera” è il primo romanzo del premio Nobel di Gabriel Garcia Màrquez (lo stesso autore di “Cent’anni di solitudine”). Pubblicato per la prima volta nel 1985 narra la storia di un amore che non avrà coronamento prima di “cinquantatré anni, sette mesi e undici giorni, notti comprese”, tempo intercorso tra la rottura del fidanzamento e il successivo incontro che Fermina Daza e Florentino Ariza. Il compimento del loro amore avviene durante la crociera su un battello che risale il fiume Magdalena, lungo un itinerario che Florentino aveva percorso mezzo secolo prima. Ma adesso la foresta pluviale è disboscata, gli animali sterminati dai cacciatori, i villaggi infestati dal colera. Màrquez in questa vicenda ripercorre una esperienza famigliare e nella sua sensibilità letteraria riesce a far cogliere quanto la bellezza, i sentimenti e l’opera dell’uomo, troppo spesso incurante del prossimo e della Natura, si trovano a convivere. Lo scrittore colombiano vive a Las Cartagena de Indias, dove ha modo di coltivare le sue grandi passioni: il whisky di alta qualità, il baseball, il ballo e la diplomazia segreta.
Si, il baseball, che a Cartagena si gioca come in altre città colombiane (fu una sede dei Mondiali del 1976). Una volta lo scrittore si offese poiché un giornalista disse che aveva “la mano fredda come un moribondo”. Si trattava di una accostamento del modo di scrivere di Màrques alla mano del lanciatore che doveva essere sempre “calda, allenata, pronta”. Un giudizio improprio, poiché quella di “Gabo” è davvero caldo. Ci rendiamo tutti conto che il colera, come tante altre malattie, in molte parti del mondo sono endemiche, con tutte le tristi conseguenza. Chi abita in quelle aree impara a conviverci, a scegliere una filosofia di vita che gli permette di essere pronto ogni momento ad affrontare tale insidia. Non sappiamo quanto durerà il virus che ci sta attaccando. Non abituati ad affrontare situazioni quotidianamente a rischio contagi di un certo rilievo, la nostra mano collettiva, è diventata “fredda”, impreparata a quanto stiamo vivendo; soprattutto alle conseguenze di questa dura esperienza. Come “lanciatori” abbiamo contato troppo sulla nostra superiorità e di fronte a un “battitore” quanto mai abile e subdolo e ci troviamo, speriamo ancora per poco, senza un lancio tale da metterlo strikeout. In questi giorni siamo tutti chiamati al senso di un dovere collettivo, anche dal punto di vista mentale, in cui le regole sono sempre più dure e non facili da digerire, ma lo si deve fare. Il mondo pare finalmente svegliarsi e cerca contromisure. Se tutto va bene, potremo tornare in campo a fine aprile. In America lo Spring Training è stato sospeso e il campionato di Major League è stato dilazionato di almeno un paio di settimane. In Giappone, dove il virus è giunto prima che da noi, già da un paio di settimane, sul sito degli Hokkaido Nippon Ham Fighters di Sapporo appare un video in cui viene insegnato il modo per lavarsi al meglio le mani, non solo ai giocatori. Sul sito dei Fukuoka SoftBank Hawks, plurivincitori del campionato giapponese, un video mostra il baseball giocato dal solo lanciatore e e da un battitore altrettanto solo, che sventola la mazza da destro e da mancino. Un invito a rispettare le distanze, anche in campo. Mentre l’inverno, per il batti&corri in particolare, è il tempo della preparazione e dell’attesa, questa doppia Quaresima può rappresentare un periodo di riflessione, di riprogettazione. Soprattutto, ci conduce a un modo più consapevole di pensare alle relazioni, alla socializzazione, ora è sostanzialmente vietata per ragioni di sicurezza sanitaria collettiva. Certo, non possiamo giocare, per cui se ci capita di vedere anche da lontano un paio di ragazzi che fanno due tiri nel cortile, il cuore fa un sobbalzo. Così il pensiero continua ad andare dal passato al futuro come quei tiri cui vorremmo partecipare. Come per Florentino Ariza bisogna sapere attendere, ma senza alcun segno di resa. E anche se da ormai cinquantacinque anni mi trovo nel mondo di un gioco ogni giorno più ricco di sorprese, resta l’incanto a darmi sostegno. L’incanto del futuro, di un lancio che in qualche modo deve superare l’abilità del battitore e viceversa. Tanti in questo momento si stanno sacrificando per proteggere tutti i noi, con coraggio e passione. Credo che ognuno di noi abbia il dovere di non tali sentire soli e soprattutto di non vanificare i loro sforzi. Chissà cosa troveremo nell’uovo di Pasqua: una pallina da baseball in quello più e, in uno più grande, una da softball. Come diceva Babe Ruth, “Fai in modo che la paura di andare strikeout non ti faccia abbandonare il gioco”.
Giuliano Masola, 14 marzo 2020, dai “domiciliari”.