di Giuliano Masola. La vittoria dell’etiope Abebe Bikila nella maratona delle Olimpiadi di Roma nel 1960 è nella memoria da tanti. Un figlio di quel Corno d’Africa che aveva fatto parte del nostro effimero Impero aveva lasciato il vuoto dietro di sé; non solo, aveva corso per oltre quarantadue chilometri a piedi nudi dalla via Appia Antica all’Arco di Costantino. “Corro scalzo per sentire meglio cosa sussurra la terra”, dichiarò ai giornalisti impreparati a una simile impresa. Una risposta grandemente attuale. Nelle successive Olimpiadi di Tokio, benché operato da poco di appendicite, Bikila vinse ancora, ma questa volta con le scarpe; la sua sensibilità per la terra era così profonda da superare qualsiasi cosa. Quasi cinquanta anni prima di lui, un altro grandissimo personaggio balzò agli onori delle cronache: Jim Thorpe, nato in territorio indiano nei pressi di Prague (Oklahoma), nel 1887. Il suo nome, fra i Sauk era Wa-Tho-Huk, “Sentiero luminoso“. Atleta dalle doti eccezionali vinse le gare di pentathlon e decathlon alle Olimpiadi di Stoccolma nel 1912, aggiudicandosi otto delle quindici gare complessive. Non solo, si classificò quarto a pari merito nel salto in alto e settimo nel salto in lungo. In questo caso le scarpe hanno avuto il loro peso: prima della gara conclusiva del decatlon gli furono rubate; si arrangiò con un paio di scarpe scompagnate, di cui una presa dal bidone della spazzatura. Al contrario di Bikila, portato alle stelle dal suo paese, Thorpe dovette affrontare una situazione molto più difficile. Accusato di professionismo per aver preso qualche soldo mentre giocava prima delle Olimpiadi, venne privato delle medaglie. Ancor prima della decisione del Comitato Olimpico, una parte degli americani avrebbe voluto che le restituisse per la sua etnia (fino al 1924 i nativi americani non avevano il diritto di cittadinanza, salvo casi particolari). “L’indiano Thorpe alle Olimpiadi. Il pellerossa di Carlisle fa di tutto per trovare un posto alle Olimpiadi, scrisse il “New York Times” in un articolo di apertura. Jim superò quel difficile periodo, grazie alla sua fama che aveva oltrepassato i confini americani. Solo nel 1982 fu tolta la squalifica e le medaglie vennero restituite, ma Jim Thorpe era morto già da trenta anni. Thorpe fu un grande giocatore di football americano e di basket. Nel baseball giocò in Major League dal 1913 al 1919, coi New York, Giants, Cincinnati Reds e Boston Braves. Dopo i tanti successi sportivi, però la sua vita divenne un dramma: povero e disoccupato negli anni della Grande Depressione finì in un istituto di carità. Nonostante tutto, Thorpe era consapevole di quello che rappresentava per i nativi americani: “Non sono tanto contento per l’atleta che sono, quanto essere il discendente diretto di un nobile guerriero”. Quel grande combattente era Falco Nero, famoso nel 1832, per la guerra che porta il suo nome contro coloni de Wisconsin e dell’Illinois. Jim è stato un atleta al confine di due mondi che ancora oggi, in qualche caso, fanno fatica a convivere. La vita e lo sport ci possono portare sussurri luminosi, quelli che ogni giocatore racchiude in sé e che evidenzia diversi modi. Ogni giorno di più siamo chiamati a confrontarci con persone diverse, sconosciute, che facciamo fatica a comprendere; si tratta di una grande sfida che anche il diamante può aiutare a vincere. Per tentare di capire e di farci comprendere credo che si debba partire dalla scuola, compresa quella del baseball; una scuola che non è mai finita e che per questo è particolarmente impegnativa e interessante. L’estate è un buon momento per leggere, magari per approfondire. Sappiamo bene quante persone commettono reati e che buona parte di queste vanno in carcere. C’è chi studia il problema, che riesce a dialogare con loro, per cercare di comprendere quali siano le possibilità di superare barriere che paiono impenetrabili. In un recente saggio di Doriano Saracino, “Ringrazio Dio che siamo vivi. Giovani stranieri in carcere”, mi ha colpito la frase di un giovane: “Sin peligro non hay gloria”, in pratica dagli errori non si apprende. È una frase che colpisce, poiché normalmente pensiamo il contrario. Eppure, a un esame approfondito si scopre che c’è molta verità. Non sono tanto gli errori che insegnano, quanto la messa in pratica di quanto si apprende. Qui sta la grande difficoltà, poiché spesso non siamo sufficientemente attenti, sottovalutiamo l’insegnante, lasciamo che la nostra mente vaghi, diamo la precedenza al nostro io. Il risultato lo vediamo in campo, in ogni campo. E ciò accade per la nostra superbia, per l’incapacità e il coraggio di confrontarci alla pari. Vogliamo vincere e basta. A metà del Seicento, un grande commediografo francese sosteneva che “a vincere senza pericolo, si trionfa senza gloria”. Il giovane citato con tutta probabilità non ha mai letto Corneille, ma è giunto a “buscar el ángulo”, trovare il giusto punto da cui giudicare ‒ come ci hanno insegnato gli arbitri cubani ‒ pur partendo da una diversa prospettiva. La tensione al risultato da sola non basta; occorrono anche preparazione e coraggio. Abebe Bikila, nel 1969 ebbe un gravissimo incidente automobilistico che lo paralizzò dalla vita in giù; nonostante ciò, partecipò poi ai giochi paralimpici. “Gli uomini di successo incontrano la tragedia. È stato il volere di Dio se ho vinto le Olimpiadi; è stato il volere di Dio a farmi incontrare l’incidente. Ho accettato queste vittorie come accetto questa tragedia. Devo accettare entrambe le circostanze come avvenimenti della vita e vivere felicemente”. Se impariamo ad ascoltare, il sussurro della terra può giungere fin dentro di noi, anche attraverso gli spikes, e permetterci di camminare insieme verso un sentiero di luce.
Giuliano Masola, 2 settembre 2018.