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PASQUA (Santa)

di Giuliano Masola. Nel 2012 la prima partita di campionato ‒ Opening Day ‒ si giocò il Venerdì Santo, giorno in cui i Cristiani ricordano la morte di Gesù Cristo e gli Ebrei il Passaggio del Mar Rosso, cioè la fuga dalla terra dei Faraoni. Il fatto suscitò molte polemiche e reazioni. In quella occasione, Ron Colangelo, responsabile delle comunicazioni dei Tigers, messo alle strette, ribadì che basket (NBA) e football (NFL) giocavano il giorno di Natale. Con il progressivo abbandono dei “vecchi” valori, e l’adozione del consumismo quale base ideale di sviluppo, certe diatribe possono apparire superate. Nei grandi e piccoli stadi, conta più il numero degli hot dog che dei biglietti venduti, per cui la cosa non dovrebbe sorprenderci. Eppure, il baseball, per molti è una specie di religione. All’inizio di “Bull Durham”, Anne Savoy (interpreta da Susan Sarandon), lo spiega. “Credo nella Chiesa del baseball. Ho provato tutte le religioni più importanti e la maggior parte di quelle minori. Ho creduto in Buddah, Allah, Visnù, Shiva, negli alberi, nei funghi e in Isadora Duncan. So tante cose. So che ci sono 108 cuciture in una palla da baseball, così come tanti sono i grani del Rosario… Le ho provate tutte, davvero, e la sola chiesa che nutre l’anima, giorno per giorno, è quella del baseball”. Una serie di strike, potremmo dire. L’unico ball è rappresentato dal parallelo inesatto fra le cuciture della palla e la corona del Rosario (scusate, ma nella mia infanzia ho fatto il chierichetto con tonaca e cotta e Messa in latino). In poche parole si riassume una situazione che fa del baseball qualcosa di più di un semplice gioco, poiché si passa dal piano agonistico a quello fideistico. Il nostro gioco, come tante altre discipline, ha i suoi riti e rituali, La stanza in cui Anne Savoy accoglie gli ospiti è dannunziana: statuette ed effluvi profumati la fanno da padrone. Non è il solo caso, in cui i riti e i rituali del baseball vengono evidenziati. “Bull Durham” è una fiction, una situazione immaginaria, anche se ha in sé molte verità. L’uomo, almeno fino a ora, ha sempre creduto in qualcosa che fosse al di là del misurabile, del pratico: ha sempre evidenziato la propria fede in qualcosa, o in chi avrebbe potuto renderlo capace di far fronte alle prove della vita. Ha sempre guardato oltre, al di là. Anche noi lo facciamo, anche se non lo dichiariamo. Spesso, la nostra reazione scettica nasconde in realtà un desiderio di miglioramento. Ogni volta che ci prepariamo per scendere in campo ci muoviamo in direzione di un obiettivo, ben sapendo che quanto avverrà non dipenderà solo dalle nostre abilità: dobbiamo affrontare altri, con  simili obiettivi. Possiamo preparaci in tanti modi, pronti anche a improvvisare, a cambiare lungo lo svolgersi della partita. Ogni manager ha una propria filosofia, un insieme di modalità che nei manuali di baseball dei college è codificata; ci sono tante strade per giungere al risultato, ma occorre scegliere una linea-guida. Nel nostro gioco, dove la preparazione e l’affinamento tecnico e mentale sono senza soluzione di continuità, occorre avere fede, fede nei propri mezzi e disponibilità al sacrificio, che traduciamo in campo col “bunt” e lo “squeeze”, cioè “sacrificio del singolo per il bene collettivo”. Certo, il “business” pare in grado di travolgere ogni cosa, di superare anche ciò che fino a pochi anni fa si riteneva elementare, reinterpretando e annientando le grandi ideologie che hanno caratterizzato il secolo scorso, “breve” forse anche per questo. Il più delle volte, non ci rendiamo che, più che a partecipare a un gioco, entriamo nel rito: gesti parole e azioni si svolgono all’interno di un sorta di tempio (non  ha caso, “dome” sono gli stadi coperti). In tutto questo, e a tutto questo, noi siamo partecipi poiché lo desideriamo, poiché crediamo nella giustezza di ciò che facciamo. Sappiamo bene quanto ciò che ci attornia sia addirittura ostile, in certi casi, per cui qualcosa che ci spinge da dentro ed evidenzia il nostro desiderio di esprimere il nostro impegno (una sorta di “inside-out”) è fondamentale. Spesso ci si chiede, dal punto di vista storico, come pochi uomini tremanti e disorientati siano riusciti a dare corpo a una religione che annovera più di un miliardo di credenti. Uno degli elementi fondamentali è stato la costituzione di “ecclesie”, di gruppi che si riconoscevano in verità fondamentali, di carità, con spirito missionario, in un mondo in cui la schiavitù era dominante. Forse dovremmo rifletter su questo e capire se davvero siamo in grado di stare insieme per indirizzare al meglio i nostri sforzi. È una operazione molto difficile. Dovremmo però riflettere sul fatto che più restiamo divisi, più concediamo spazio agli altri. Si tratta di una lotta di sopravvivenza in cui il sacrificio del singolo non basta.

Personalmente, ho una speranza, una speranza che viene da lontano e che spero di non perdere. Da tanti anni, in questi giorni, rivedo “Jesus Christ superstar”, un fim-culto per me. Ogni volta riscopro qualcosa, cerco di osservare ogni dettaglio. Nella scena finale, l’ultimo che sale sul pullman guarda il paesaggio dove tutto si è svolto con un velo di tristezza e malinconia, quasi con la convinzione che tutto quanto accaduto sia stato inutile. Il baseball è tutto questo: fede, passione, sacrificio, racconto. Soprattutto futuro, se ci crediamo. Una volta il poeta Walt Whitman disse: “Vedo cose grandi nel baseball. È il nostro gioco, il gioco americano. Ripara le nostre sconfitte ed è una benedizione per noi. Guardate in alto”. Fortunatamente, il batti&corri non è solo americano, per cui potremmo adottare le parole del anche alla nostra realtà. A pensarci bene, il baseball indica un passaggio, soprattutto dal punto di vista mentale: il superamento di confini e barriere; in parole povere, Pasqua. Proprio per questo, alla domanda che qualcuno potrebbe farci: “Per chi lo hai fatto?”, possiamo solo rispondere con l’esempio e la voglia di andare avanti, guardando in alto, in vista di una Vera Pasqua.

Giuliano Masola, 24 marzo 2018