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Ciao… WAHOO!

di Giuliano Masola. Non sto sbadigliando, tutt’altro; sto solo pensando alla decisione dei Cleveland Indians di togliere il logo con la caricatura del capo indiano Wahoo. A partire dal 2019 su maglie, casacche, cappellini, ecc., scomparirà; sarà mantenuto in un paio di aree degli Stati Uniti per non perdere i diritti commerciali. Il motivo è legato a problemi e contenziosi sorti con i nativi americani, specialmente dell’Ontario (Canada), fin dal 1911, finiti in tribunale. Il commissioner Rob Manfred ha caldeggiato la decisione, poiché “la Major League è impegnata a costruire inclusione nel rispetto delle diversità”. Al posto della simpatica faccia (almeno per me) di Wahoo, ci sarà la “ block C”, cioè un carattere dagli spigoli vivi, come logo principale. Jim Thome, il campione recentemente indotto nella Hall of Fame, ha dichiarato di essere d’accordo, di supportare tale iniziativa. La decisione conclude un lungo percorso che dagli anni Trenta in poi ha portato gli Indians, che continueranno a mantenere tale nome, a portare differenti figure sulle loro divise. Qualcuno ricorda, ad esempio, quello con Unca Dunca, che aveva una penna ricadente a metà, come spezzata. Certamente quanto sopèra pone motivi di riflessione, tanto da apparire in controtendenza verso dichiarazioni che quasi ogni giorno intendono condurre alla divisione, alla esclusione. Certamente, la mia ignoranza sul mondo americano, in particolare sui rapporti fra i nativi e la società e gli altri è grande (un emendamento della Costituzione americana riconosce i diritti agli ex schiavi, non ce n’è uno per i nativi americani). Nella decisione presa nell’ambito della Major League traspare la volontà di chiedere in qualche modo scusa a quelle popolazioni sterminate per far posto alla nostra “civiltà”, o almeno è auspicabile. Gli Indians fanno parte di quelle squadre che vincono raramente, per cui mi è particolarmente simpatica anche per aver letto molti giornalini da ragazzo ‒ Tex, Black Macigno, Capitan Micky, Kinowa e altri ‒ che mi hanno fatto sognare l’Ovest, la frontiera e non sono del tutto convinto dell’operazione. Il cambiamento di un logo rappresenta un cambiamento di rotta, in qualche modo. Nell’azienda in cui ho lavorato per tanti anni, ciò avvenuto alcune volte, sempre dopo attente e lunghe valutazioni. Il logo è l’emblema sullo scudo:  indica l’origine, la permanenza, e l’obiettivo, tanto è vero che spesso è accompagnato da un motto. Dal punto di vista commerciale tale operazione porta sempre con sé qualche rischio. Nel caso specifico degli Indians molto probabilmente ci saranno reazioni non completamente positive dei tifosi di più antica fede, ma, almeno nel breve periodo, una maggior vendita di materiali “old fashioned”: basta dare una occhiata al mercato dei “memorabilia” per rendersene conto. Qualcuno di voi, a questo punto, avrà già voltato pagina, chiedendosi perché si perde tempo a scrivere certa roba: non posso dargli torto. Credo però che qualche riflessione occorra farla. Infatti, la cosa più importante non è tanto la forma più o meno spigolosa della “C”, quanto un rapporto che si sta modificando, una riflessione su cosa può accadere in tempi lunghi. Certamente, sotto le belle parole e alle buone intenzioni, c’è un evidente interesse, quello che unisce lo sport (o meglio lo spettacolo che lo sport può offrire) al vil danaro. Le società di Major League cercano talenti in tutto il mondo, anche nostri come sta succedendo, e fanno di tutto per accaparrarseli, anche a mezzo di incredibili triangolazioni: il caso dei giocatori cubani è stato emblematico. Di conseguenza, cosa c’è di più bello dell’offrire un mondo (sportivo) dove, almeno teoricamente, colore della pelle, religione, nazionalità non rappresentano un limite. Tutto bello, perfetto verrebbe da dire. Non so, però, se qualcuno ha pensato di chiedere al capo Wahoo cosa pensa di tutto questo, in particolare se è d’accordo di essere messo in pensione. Ma la sua opinione conta poco: l’America è il paese del lavoro flessibile e, come nei film, avrà una scatola di cartone dove riporre penna d’aquila, tamburo di guerra, tomahawk e calumet, con cui andarsene libero, in una riserva (magari senza neanche un sussidio: chi ha costituito mai dei fondi pensione per un logo?). Nessuno, forse, ha chiesto nulla ai tanti ragazzi affezionati a quell’indiano simpatico e pazzerello, che li fa divertire, così come si divertivano con il piccolo Pow-Wow. Ma si sa, i pensionati e i ragazzi non contano, per cui si può tranquillamente procedere. Resta un’ultima osservazione. Penso che tanti abbiano incontrato “logos” nella loro vita. Si tratta di un termine dai tanti significati: dal pensiero quale essenza stessa al ragionamento. Normalmente il nostro pensiero e le nostre azioni sono il frutto di un approccio e di un percorso logico. Pertanto, è necessario prestare attenzione anche a ciò che sembra apparire come normale. I responsabili commerciali e gli esperti di pubblicità degli Indians inventeranno molto probabilmente un nuovo logo nei prossimi mesi; una operazione non facile, ma necessaria. Ogni squadra ha un suo emblema, un simbolo di riferimento; sarebbe limitativo avere una semplice “C”; probabilmente verrà chiesto ai tifosi di proporne uno (cosa già fatto da altre squadre in passato), anche per evitare forme di contestazione. Non ci resta che vedere, ed eventualmente partecipare. L’America è un esempio, si sa, per cui anche da noi si sta cambiando logo; infatti ne vedremo uno nuovo sulle magliette degli arbitri nella stagione che sta per iniziare, ma pare che dietro questa decisione non ci siano grandi motivi ideali. Ma il nostro baseball è quello che è, per cui è meglio non porsi troppe domande.

“Augh!”

 

Giuliano Masola, 4 febbraio 2018