fbpx

“Safe!”

di Giuliano Masola. L’arbitro è al centro dell’attenzione per tanti motivi; spesso ci si ricorda di quando le sue decisioni sono apparse discutibili e, ovviamente, la sconfitta è derivata da ciò; l’ideale è non ricordarne il nome. Come ha detto qualcuno, probabilmente un amico di Yogi Berra, ci si aspetta da lui che sia in forma al 100% all’inizio di stagione e che lungo il campionato migliori ulteriormente. Un arbitro è un uomo, soprattutto una persona che si prende un compito delicato e non facile: fare in modo che tutto si svolga nell’ambito delle regole. E ciò deve farlo emettendo giudizi in tempi molto stretti, ben lontani da quelli della vita quotidiana. Forse è per questo che quando si trova coinvolto in vicende extra diamante la cosa può suscitare emozione e scalpore. Un fatto del genere è avvenuto il 28 giugno scorso a Pittsburgh, in Pennsylvania. Il trentaquattrenne John Tumpane, designato ad arbitrare I Pirates contro i Tampa Bay Devil Rays. Mentre camminava in direzione dell’albergo, intorno alle 14.30h. Tumpane ha visto una donna che voleva attraversare i binari del ponte “Roberto Clemente”. Anche con l’aiuto di altri, è riuscito a farla desistere, probabilmente da un proposito suicida. “L’ho fatto parlando con la stessa, che sembrava molto scossa”, ha dichiarato John. L’arrivo della polizia e di altri mezzi di soccorso, che qualcuno aveva chiamato nel frattempo, ha fatto in modo che la cosa si concludesse positivamente. Dall’intervista successiva è emersa chiaramente la figura di Tumpane in quel delicato frangente, diventato,  estremizzando, arbitro della vita di una donna disperata. “Mi sono sempre occupato degli altri”, ha detto con grande semplicità. Dopo l’episodio, è andato regolarmente in campo; i Pirates hanno vinto 6-2. John Tumpane è un arbitro in gamba: ha iniziato a usare il contastrike a diciotto anni ed è da sette in Major League; il 21 agosto 2105 ha arbitrato la no-hitter ottenuta da Mike Fiers al Minute Maid Park di Houston.  Pertanto sa cosa significa stare sotto pressione e tenere i nervi saldi. Nella vicenda, rilanciata in tutta America dai media, ci sono vari elementi su cui ci si può soffermare. Mi ha colpito, ad esempio, una circostanza: il nome del ponte. Roberto Clemente resta una indimenticata icona del baseball. Grandissimo giocatore dei Pirates, nato a Portorico, scomparve in un incidente aereo, nel 1972, mentre portava aiuti in Nicaragua, paese devastato dal terremoto. Il suo corpo non venne mai ritrovato. La sua tragica fine però ha lasciato un segno, un esempio di solidarietà. Il baseball è fatto di uomini, fra questi, ci sono diavoli e santi, pavidi ed eroi. Probabilmente ha il vantaggio di mettere continuamente alla prova: uno contro tutti, tutti contro uno, tutti contro tutti. Sembrerebbe l’esaltazione di una guerra, ma in realtà è una espressione di umanità. Come ha detto qualcuno, l’istinto umano è quello della sopraffazione, non quello della fratellanza, una forma di coesistenza che nasce dal ragionamento, dalla cultura, dalla necessità di stare insieme, anche se ciò può causare delle difficoltà. Il baseball, a ben vedere, permette all’uomo di trasformarsi in persona. Ci sono allenatori che dicono ai battitori “di comportarsi da ignorantoni”, cioè di estraniarsi da tutto per concentrarsi sulla palla da colpire. Si parla anche di “istinto dell’assassino”, quando ci si riferisce al lanciatore, e altro. In realtà, dietro ognuno di questi atteggiamenti ed espressioni c’è l’invito a pensare, a rendersi conto della propria responsabilità e del proprio ruolo, in campo e fuori del campo. La divisa (cioè qualcosa che divide) è anche uniforme (cioè accomuna). La difficoltà di fare coesistere le due situazioni è evidente, ma proprio qui sta l’uomo, quello con la “u” maiuscola. Molti aneddoti si rifanno a grandi giocatori – Babe Ruth e Satchel Page, fra gli altri– evidenziando lo strasmisurato numero di hot-dog ingurgitati del primo o il decalogo alimentare/colloquio con lo stomaco del secondo. In realtà, che gioca utilizzando solo con la forza e non ha cervello dura poco; il talento fisico non basta. Chi investe in giocatori vuole prestazioni costanti, durature, di livello alto, non vuole gestire grane, anche se ciò accade. Quanti milioni di giovani in tutto il mondo aspirano a giocare in Major League? Tanti, ma alla fine il roster complessivo delle squadre della massima serie è di 1200 giocatori circa. Gli scout, continuamente in perlustrazione, fra le varie domande cui devono dare una risposta c’è quella sul comportamento, oltre a quella sulla capacità di apprendimento dell’individuo. Certamente non è facile capire come si svilupperà la personalità di un giovane di quindici-sedici anni, ma occorre almeno fare una ipotesi fare un tentativo di educazione. L’età in cui si entra nelle Majors, si è abbassata notevolmente nel corso degli ultimi decenni, ma ciò non significa che tutti possano andare in campo. Pur selezionati, c’è un lungo iter da seguire, fatto di sacrifici, compreso l’adattarsi a spostamenti anche improvvisi, fra tante piccole e grandi città, in brevissimo tempo. Si tratta di una scuola dura, dove ci sono più bocciature che promozioni. Per farcela ci vuole una grande determinazione, una precisa personalità. E come persone, potremo dare anche per l’aiuto al prossimo, come ha dichiarato proprio Roberto Clemente: “Se hai la possibilità di fare qualcosa che migliori la vita a chi ha meno di te, e non lo fai, butti via il tuo tempo su questa terra”. In campo e fuori, saremo safe at home!  Giuliano Masola, 1° luglio 2017