di Giuliano Masola. Il Gramophone Award, il “Grammy”, è uno dei tre maggiori riconoscimenti in ambito musicale; gli altri sono il Billboard Awards e l’American Music Awards. Il premio di per sé avrebbe un valore relativo se non gli venisse associato anche un luogo in cui si raccolgono i lasciti, le memorie dei vincitori e non solo. Il baseball e la musica vivono in una sorta di simbiosi fin dalle origini, dalle filastrocche alle canzoni per così dire impegnate. Per avvalorare questa situazione il Grammy Museum di Los Angeles, all’inizio della presente stagione ha aperto una mostra di oggetti, strumenti e brani musicali intitolata “Take Me Out To The Ball Game: Popular Music And The National Pastime”. In contemporanea, vi è stato l’annuncio della registrazione della popolarissima canzone che fa parte del titolo da parte dei nuovi eletti alla Baseball Hall of Fame. Fra quanto esposto si possono trovare pagine musicali fin dagli albori del baseball, canzoni e liriche manoscritte come “Angels of Fenway” di James Taylor, una collezione di dischi in vinile e il microfono di Harry Caray ‒ Harry Christopher Carabina è stato un famoso annunciatore per cinque squadre di Major League ed è stato l’ideatore del “seven inning stretch”. Sappiano della mania dei collezionisti per trovare qualcosa di unico, anche se spesso è una gara persa in partenza, ma credo che possedere la Jackie Robinson Telecaster della Fender ‒ chi non ha un po’ di pelle d’oca a questo punto, alzi la mano ‒ sarebbe pressoché il massimo. Alla fine del boom degli anni Sessanta, nonostante le difficoltà, si aveva voglia di ballare, suonare, cantare e, anche se non per tutti, di giocare a baseball. E per invogliarci a giocare, ad amare questo gioco, chi aveva dato il via ci ricordava i grandi campioni, la loro storia, le loro imprese. Con Babe Ruth e Joe Di Maggio, certamente Jackie Robinson è stato fra i giocatori più citati e oggi ancor più di allora, poiché simbolo di una sorta di rivoluzione.
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