di Giuliano Masola. Non preoccupatevi, non parlerò di Van Gogh, né delle belle atmosfere provenzali. Vincent è un ragazzo di dieci anni, balzato agli onori della cronaca, quella del baseball, perché imita gli arbitri, stando in tribuna. Con una divisa impeccabile, munito di maschera e di sacca per le palline, effettua ogni chiamata con notevole stile. Per gli arbitri in campo è diventato un amico; il 22 settembre, prima della partita fra Nationals e Mets, gli hanno regalato un conta strike. Le sue piccole dita, all’inizio, hanno fatto una certa fatica a manovrarlo, ma poi tutto è filato liscio. Il comportamento di Vincent può essere considerato una sorta di farsa, ma la costanza e la serietà con cui agisce fanno cambiare rapidamente idea. Sappiamo quanto business ci sia nel baseball professionistico, per cui ogni occasione è buona per far pubblicità, richiamare spettatori. A differenza di tanti suoi compagni, Vincent va allo stadio per seguire i suoi arbitri prediletti, piuttosto che i giocatori famosi. Per avere la migliore gestualità ed essere davvero “in campo”, il ragazzo si guarda le partite del giorno prima, prestando grande attenzione alle chiamate, ai replay, alle espulsioni. Un vero autodidatta, che combina abilità fisiche e tecnologia, per cui c’è già chi lo pronostica arbitro alle World Series del 2045. Come sempre, i ragazzi hanno qualcosa da insegnarci, soprattutto per quanto riguarda le loro scelte. La visione degli adulti è spesso offuscata, distorta; soprattutto condizionata dall’esperienza. Ciò fa una grande differenza, una differenza che stroppo spesso non consideriamo. Anche altri hanno imitato gli arbitri allo stadio, magari sotto forma di un balletto. Arbitri finti si possono incontrare negli stadi americani da una decina d’anni e la cosa è più seria di quanto si immagini, poiché, quanto viene raccolto durante le loro messinscena ha fini benefici. Ciò ci deve fare riflettere, poiché focalizza l’attenzione su un aspetto che pare scomparire con il passaggio a categorie sempre superiori: l’aspetto ludico. I ragazzi vivono di gioco e hanno un grande spirito di imitazione; su questo contano moltissimo gli insegnanti. Un ragazzo bravo, studioso e con buone capacità relazionali può diventare un ottimo punto di riferimento per i compagni. Penso che quasi tutti abbiano un personaggio, un atleta, una squadra di riferimento, qualcosa da imitare. Il bravo allenatore mostra ogni movimento, ogni giocata affinché i giocatori imparino e possano migliorare. Stessa cosa può valere per gli arbitri. In particolare coi più giovani, credo che il comportamento e la capacità di relazionarsi siano fondamentali; il regolamento viene dopo. Per conto mio, è indispensabile mettersi alla loro altezza (per me è facile, visto il mio 1, 60 scarso). Ragazze e ragazzi si rendono conto delle caratteristiche di un arbitro molto di più di tanti allenatori e osservatori.
Quando sei lì, in particolare se sei solo, hai bisogno di un ambiente in cui sentirti a tuo agio e certamente non sono i commenti dei tifosi e le lamentele dei manager a rendertelo tale, ma è lo sguardo dei giocatori cui devi sempre un sorriso. Un rapporto di fiducia, basato anche attraverso quei piccoli suggerimenti che possono evitare infortuni, l’attenzione e la decisione nell’evitare che sorgano contrasti, e così via. Certo, quando si arbitra si possono fare errori nelle chiamate, nei giudizi; ciò che è importante non sbagliare, a mio parere, è la qualità dell’approccio con ciò che in quel momento fa parte della partita: dagli spettatori ai manutentori. Credo che occorra fare un salto di qualità, partendo da chi comincia a giocare, che vuole accolto, istruito, accompagnato in un percorso lungo e non facile, poiché è il baseball a richiederlo. Ognuno ha il proprio stile, un comportamento che non si può clonare, almeno per ora. Si può, però, cercare di allargare la vista, soprattutto nella formazione di nuovi arbitri, anche se non è facile. Sapere il regolamento e muoversi con la giusta tecnica non bastano, se ciò non sono all’interno di relazioni chiare. Essere arbitri significa essere giudici, ricordandoci di essere prima di tutto degli uomini, però. In una società sempre più individualista (c’è chi l’ha definita “liquida”, ma ho il dubbio che il contenitore ‒ la nostra cara Terra ‒ abbia qualche perdita) una partita è la giusta occasione per instaurare o riagganciare rapporti fra persone che hanno deciso di giocare, di vivere, all’interno di regole condivise. Il nostro Vincent ha le idee chiare e, se avessimo la possibilità di incontrarlo, magari li chiarirebbe anche a noi; sarebbe probabilmente in grado di dirci quanto sia bello vivere insieme, non solo allo stadio. Una partita di baseball o di softball è un ponte fra persone, un ponte complesso, in cui le arcate si intersecano. Ciò significa non essere, mai fermi, mai contenti dei risultati ottenuti, sempre pronti ad andare avanti, nonostante le traversie cui possiamo andare incontro. A me non piace un mondo ovattato, silenziato, in cui “fake” è diventato sinonimo di prevaricazione. Pur amando De Gregori, mi spaventa un poco il fatto che ieri alla televisione/ mi hanno detto di stare tranquillo/ non c’è nessuna ragione/ di aver paura/ non c’è proprio niente che non va. Purtroppo, non è dato a sapere se il “Vincent” che da Parigi scriveva a Francesco sapeva giocare a baseball. Di certo ci lanciava un messaggio.
Giuliano Masola. , 30 settembre 2018