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Fra palla morta e base ball

di Giuliano Masola. Con i soldi si può comprare tutto (o quasi, direbbe chi sa spogliarsi delle miserie umane), e il batti&corri non fa eccezione. C’è poi un’altra idea, quella della conquista, e ben lo sanno battitori e corridori, Ai primordi del baseball, quando il gioco del Nuovo Mondo cominciò a prendere distanze da quello del Vecchio, c’erano regole abbastanza severe, soprattutto per proteggere i battitori. Fino al 1876, il lancio che colpiva il battitore non era considerata “palla morta”, ma semplicemente un “unfair pitch”: tre lanci non buoni costituivano un ball; poiché con tre ball si aveva diritto alla base, in pratica occorrevano nove lanci non battibili.

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Una pallina… da meditazione

di Giuliano Masola. “Anche su una oliva si può meditare…”, scriveva in modo provocatorio un poeta futurista di un secolo fa. Beh, a questa provocazione potremmo rispondere con un’altra, prendendo una pallina e osservarla, rigirandola fra le mani. Se facciamo attenzione, possiamo ascoltarne la storia e scoprirne i segreti, raggiungerne perfino il cuore. La prima fabbrica di palline fu aperta nel 1871 da Albert James Reach, che era nato a Londra e in America era diventato un bravo esterno, contribuendo anche a creare i Philadelphia Athletics, nell’ambito della Association, nel 1883. La sua ditta divenne famosa, tanto che il marchio di fabbrica fu mantenuto dalla Spalding, che ne era divenuta proprietaria nel 1890, fino al 1975. Attualmente, al centro della pallina vi è un nocciolo duro, derivante dal da cricket. Una pallina da Major League per essere tale deve superare circa una ventina di test: deve essere perfetta e avere 108 punti di cucitura. A questo punto, la mente degli amanti del cinema, soprattutto di quello avente il baseball come soggetto, correrà immediatamente al monologo di Annie Savoy: “108 sono le cuciture di una pallina da baseball e 108 i grani di un Rosario…” (si tratta di una forzatura, poiché normalmente questi ultimi sono circa una metà, ma va benissimo così). Un tema sempre presente è stato quello dei materiali: fino a non molti anni fa, la copertura esterna doveva essere di pelle di cavallo, e non altro. Forse qualcuno ancora ricorda partite protestate e vinte perché la squadra di casa aveva usato palline con altro tipo di pellame. Un altro punto per lungo tempo dibattuto è stato quello del colore. Nel 1870, venivano usate palline colorate di rosso nelle giornate soleggiate, mentre nel 1872 furono stabiliti gli attuali peso e misura.

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Foul & spritz!

di Giuliano Masola. Nel 1884 il lancio da sotto venne abolito in favore dell’attuale. La palla divenne più difficile da colpire e il numero dei foul incrementò. Nel 1901 nella National League venne adottata la regola dello strike legata al foul ball; l’American League la seguì nel 1903. Fino a quel momento, i battitori, non essendo chiamati strike le prime due battute in foul, continuavano a cercare di toccare la palla all’infinito per lucrare una base su ball. Una battuta in foul può provocare danni fisici agli spettatori. La Corte Suprema del Michigan però, nel 1908, stabilì che chi si guardava la partita, in un’area non protetta, lo faceva a proprio rischio e pericolo. Agli inizi del Novecento, spitball e screwball divennero di moda; il risultato era un maggior numero di giocate in diamante, ma anche un incremento delle battute in foul. Nel 1913 ‒ l’anno seguente l’adozione di un nuovo tipo di pallina con all’interno uno strato di sughero per renderla più stabile ‒ a seguito di una controversia che aveva coinvolto il Kansas City Baseball, furono codificati i casi di negligenza da parte dello spettatore e di dare la possibilità, a chi lo avesse richiesto, di vedere la partita da un punto protetto. Una regola che vale ancora oggi: chi va allo stadio in America trova chiaramente scritto che la società di casa non si assume i rischi derivanti da battute in foul e/o altre attrezzature che possono finire in tribuna, come le mazze spezzate. La cosa che però ci si aspetta, soprattutto quando in campo brillano le stelle, è quella di potersi impossessare di una palla finita fuori dalle protezioni, in campo buono o meno non importa: quanti casi abbiamo visto di palle rubate all’esterno con i mille replay relativi? Portarsi a casa la palla, dopo averla orgogliosamente mostrata in giro, è particolarmente appagante: “C’ero anch’io!”. Non è proprio stato sempre così: nei primi regolamenti si concedevano fino a cinque minuti per recuperare una palla finita fuori.

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Mi vendo!

di Giuliano Masola. Penso che atanti verrà in mente la bella canzone di Renato Zero lanciata nel 1977 (già ilfatto che sia stata lanciata la fa apprezzare un po’ di più). Il testo ponemolti interrogativi cui non è facile rispondere, per cui è bene restare fra lenostre quattro basi. Com’è noto, l’abilità principale di un venditore è quelladi vendere se stesso. Nel 1920, Charles Franklin Welck, dopo una breveapparizione nei Detroit Tigers nel 1917, a soli 25 anni era uno dei proprietaridei Rocky Mountain Tar Heels (trasponendo liberamente, i Lustrascarpe delleMontagne Rocciose). Non solo, poiché nello stesso anno, con una media battutadi .369, con 12 tripli e 42 punti battuti a casa a metà campionato, era ilmiglior giocatore della squadra, nella Virginia League. Saputo che iPhiladelphia Athletics, ultimi in classifica nella American League, erano allaricerca di giovani talenti, scrisse una lettera dattilografata a Connie Mack,proprietario degli Athletics, esaltando le abilità di un esterno che si chiamava,manco a farlo apposta, Frank Walker. Mack, bene impressionato dalle referenze,staccò un assegno di 5000 dollari per acquisire il contratto di Walker, che,prima di lasciare la sua città, pensò bene di depositare in banca. Nelle 24partite giocate con la squadra di Philadelphia in quell’anno, la sua media battutafu di solo .231, scendendo a .227 nelle 19 partite giocate nel 1921. Inrelazione a ciò, tornò alla sua squadra d’origine come giocatore e in parteproprietario; successivamente ne divenne il manager. Nel 1924, Walker fu ancorauna volta il miglior battitore della Virginia League con una media battuta di.370 e 50 basi rubate. Questa volta ebbe una offerta dagli Yamkees di 11 miladollari, ma fini per accordarsi coi New York Giants per 15 mila. La suacarriera si concluse nel 1925 con un media di .222 in 39 partite. Ancora unavolta dovette abbandonare le MMLL per andare nei Greenville Spinners (SouthCarolina), nella Athlantic League, dove restò per quattro anni. Fu il classicobattitore da Leghe Minori: nel 1929, due anni prima di ritirarsi, la sua media fudi .372. Una volta smessa la divisa, restò nel mondo del baseball. Nel 1962,per esempio, prese le redini dei Rocky Mount Leafs, una squadra di uncampionato minore della Carolina, assieme a Walter F. “Buck” Leonard, che erastata una stella delle Negro Leagues, associandosi prima ai Washington Senatorse poi ai Detroit Tigers. La storia di Frank Walker, scomparso nel 1974, puòessere per certi aspetti esemplare. Era un bravo battitore, ma non tanto da farfronte ai lanciatori di Major League: il classico “minor leaguer” Dal punto divista agonistico, tanti sono i casi come il suo, poiché il salto fra le LegheMinori e quelle Maggiori, o comunque le si chiami, non è banale. Per certiaspetti, Alex Liddi, il primo italiano a giocare e a realizzare un fuoricampoin Major League, vestendo la casacca dei Seattle Mariners nel 2011, potrebberappresentarne un parallelo. La media battuta di Alex, che poco prima didebuttare nelle Majors aveva raggiunto .345, però non è mai stata elevata: .208in 61 partite. Di conseguenza è stato mandato in campionati minori, prima di diventare“free agent” e approdare alle leghe messicane, dove ha saputo farsi valere,vincendo due campionati nazionali, oltre a quello Caraibico, ancora piùimportante.

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