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Un lancio per vincere

di Giuliano Masola. 27 settembre in “Che tempo che fa”, Fabio Fazio ha intervistato Anthony Stephen Fauci, scienziato che ha fornito contributi fondamentali nel campo della ricerca sull’AIDS, che è capo dell’istituto statunitense National Institute of Allergy and Infectious Diseases. Fauci è nato New York, il 24 dicembre 1940; i nonni erano di Sciacca e fra i suoi antenati c’è anche componente svizzera: emigranti al quadrato, si potrebbe dire.

La sua professionalità e preparazione gli permettono di confrontarsi apertamente col presidente USA, rappresentando quel mondo della scienza che non si lascia abbindolare e guidare dalla politica. Anthony è prudentemente ottimista sul risultato degli sforzi che si stanno facendo per avere un vaccino contro il Covid 19 e ha detto che userà tutto il suo potere per fare in modo che possa essere distribuito a tutti, soprattutto ai meno abbienti ‒ non è una cosa da poco stante i notevolissimi interessi che ci sono dietro. Ma perché ci interessa un luminare della scienza? I motivi possono essere tanti, a cominciare dall’esempio, dalla volontà di andare avanti per ciò in cui crede, affrontando obiettivi sempre più sfidanti. Alla fine dell’intervista gli è stato chiesto a cosa teneva di più, oltre il suo lavoro di scienziato. La risposta è stata: “il lancio di inizio stagione per la mia squadra che ha vinto i mondiali, le World Series. Sono uno sfegatato del baseball. L’ho sognato fin da ragazzo”. Così il 24 luglio, a Washington, indossando la mascherina e la casacca numero 19 dei Nationals ha inaugurato la stagione. Il suo lancio probabilmente andrà negli annali, poiché la palla è finita di rimbalzo, ben lontano dal ricevitore, fra i fotografi, alla Bull Durham potremmo dire. Ci sono delle cose che lasciano pensare. Domenica mattina sono stato ad arbitrare i ragazzi a Reggio Emilia. Dietro il dugout di prima, quasi contro il muretto, ho visto una scultura che mi ha colpito: una battitore colorato di rosso costruito con materiali metallici di recupero, pronto a colpire la palla; il numero di casacca era “Covid-19”. La sera seguo l’intervista del professor Anthony Fauci; incredibile ma vero (la legge del caos ha sempre la meglio, secondo i miei amici che si intendono di Fisica). Tutto questo fa pensare: un problema, per quanto grave, lo si può affrontare in tanti modi, l’importante è muoversi nel modo corretto. Stiamo partecipando e assistendo a una strana stagione, molto probabilmente perché la viviamo senza una vera convinzione. Di conseguenza, pur avendo potuto andare in campo, non avremo da celebrare molto. Certo, nei palmares di alcune squadre ci sarà lo scudetto, ma che sapore potrà avere, se si è trattato di poco di più di un torneo parrocchiale? Ormai si tratta di tirar su i conti, ancor più pensare al 2021. Molte delle squadre dei campionati maggiori attualmente sono composte con giocatori provenienti un po’ di qua e un po’ di là; una parte di questi torneranno alle società di origine, per cui ci sarà molto da reinventare. Anche da quanto si legge, la preoccupazione principale è il campionato di massima serie, mentre dei giovani sono in pochissimi a preoccuparsi, soprattutto a costruire qualcosa per loro. E così i giovani, oltre a non arrivare, se ne vanno, preferendo altri sport, spesso al chiuso, sebbene il rischio stare all’aria aperta pare sia notevolmente inferiore. C’è sempre un perché. Dare una risposta non è facile, ma continuo a ribadire a che si tratta di un problema culturale e organizzativo, che non si vuole affrontare e che continua a generare dispersione. Fra alcune settimane ci saranno le lezioni presidenziali (quasi concomitanti con quelle americane) e qualcuno ha lanciato il guanto di sfida. Almeno fino ad ora, non si vedono chiare proposte che intendono fare innamorare al batti&corri ragazze e ragazzi. Poiché il tema non si risolve né in un anno e nemmeno in quadriennio, meglio lasciar perdere. Ci sono le nazionali, Tokio e quant’altro; volete mettere indossare la maglia azzurra con la bella scritta “Italia” sul petto? Eppure continuiamo a ripetere che siamo uno sport di squadra, che è la squadra a vincere. La realtà è un’altra, anche se non lo vogliamo ammettere, poiché abbiamo ancora tanto caldo il ricordo dei nostri entusiasmi giovanili e pensiamo che basti questo. Invece non basta; è sufficiente vedere quante persone hanno avuto contatto col vecchio gioco, atleti, manager e dirigenti che hanno ottenuto successi importanti, andarsene, talvolta senza salutare. Ogni volto che guardo immagini ormai fin troppo invecchiate mi pongo la stessa domanda: dove sono andati? Perché se ne sono andati? Certamente la vita condiziona, ma credo che in fondo ci sia una forma di egoismo, quasi di superiorità. Probabilmente molti di loro avranno gettato anche i ricordi; qualcuno mi ha scritto di non provare a contattarlo più, rinnegando perfino se stesso. Credo perciò che dobbiamo svuotare il nostro zaino pieno di dubbi ed amarezze per riempirlo delle nostre armi migliori: entusiasmo, capacità di progettazione, impegno in campo. Tutto il resto, se ci impegnamo fino in fondo, verrà da sé.

Giuliano Masola, 28 settembre 2020.