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Il bar del “Bronx”

di Giuliano Masola.“Eravamo quattro amici al bar / Che volevano cambiare il mondo…”. Questa canzone di Gino Paoli mi ha ricordato che da tanto tempo non mi ritrovo regolarmente al bar con gli amici. I motivi sono tanti, forse non so neppure quali, ma è così. In questi giorni però mi piacerebbe farlo, anche se rintracciare e radunare gli amici di un tempo non è un’impresa facile; soprattutto è difficile trovare un bar che ci possa ospitare. L’Olimpico di via Montanara resta nei ricordi, nella leggenda se vogliamo. Era un punto obbligato per ragazzi che al massimo avevano in tasca i soldi per il gelato o la coca (quella che finisce con “cola”: cosa credete?), e non tutti i giorni. Un bar dove ci si incontrava prima e dopo le interminabili partite a calcio e a baseball nella bella stagione; d’inverno c’erano la briscola matta e il bigliardo, per chi poteva permetterselo.

A metà degli anni Sessanta la situazione economica generale non era buona; mettere insieme il pranzo spesso un’impresa, almeno a casa mia, ma era un problema che cercavamo di risolvere con un entusiasmo e una vitalità che oggi paiono sorprendenti. Ci bastava una canzone per darci forza, per farci sognare. Proprio per questo riuscì a nascere e crescere quella seconda generazione del batti&corri che ha prodotto tanti talenti e successi. I nuovi quartieri di Parma, in buona parte legati all’edilizia popolare, trovavano il modo di essere pulsanti, vivi, anche se alcune famiglie erano tanto povere da non riuscire a pagare il minimo canone di affitto. Il gioco, di conseguenza, aveva un effetto liberatorio: in campo, con mazza e palla, si poteva dar sfogo alla propria esuberanza e alla propria abilità, lasciando per qualche ora i problemi alle spalle. Non erano tutti “di bräv ragàs” e di ciò bisognava tenere conto: ricordo una sera in cui arrivarono i “picchiatori del Cristo” con una scena da Far West veramente “live”. Ciò non faceva paura più di tanto, si sapeva che poteva capitare. Soldi non ce n’erano e trovarli per mettere in piedi una squadretta non era facile (ci si tassava continuamente). I guanti erano ancora quelli usati dai soldati americani nella Seconda guerra mondiale; si riusciva a comprarne qualcuno a Camp Derby, la grande base militare americana di Livorno, o averli da qualche amico. Quando pensiamo alle belle uniformi odierne diventa difficile credere che in una squadra, in particolare di ragazzi, non ce ne fossero più di due o tre divise uguali. Ciò non importava. Era il mito del baseball che contava, quello che Alberto Sordi ha così bene interpretato in “Un americano a Roma”. Si trattava di un’America da sogno anche dal punto di vista ideale ‒ agli antipodi di quella attuale, per molti aspetti ‒, di un mondo che pur cambiando doveva mantenere una certa cultura, una certa tradizione per rivelarsi vincente: “ Macaroni … m’hai provocato e io te distruggo, macaroni! I me te magno!”. Questo non era solo parto della fantasia, ma faceva parte anche del modo in cui interpretavamo il gioco. Così ogni spazio disponibile si trasformava in un campo da baseball. Per esempio, in via Carmignani, davanti all’ex Istituto “Vittorio Emanuele” (un orfanatrofio), c’era uno spiazzo verde dove ci ritrovavamo. Portavo un borsone con dentro un po’ di tutto e si giocava, alternando il batti&corri al di pallone. Il gioco non si conosceva tanto, per cui su una battuta si poteva continuare a correre ancora in prima dopo aver toccato casabase per segnare il punto: una sorta di superpremio. Il tempo delle regole è arrivato una volta che si è cominciato a incontrare squadre di altri quartieri, formate da giocatori e allenatori più esperti. Palline ricucite e mazze superincollate, nastrate  e talvolta tenute insieme coi chiodi, erano la norma, anche perché non c’era alternativa. Ogni stagione ha la sua storia e se quella di mezzo secolo fa ci può apparire affascinante non significa sorvolare sui momenti più difficili. In tutto questo, una cosa che ritengo si sia persa davvero è quella di una certa stampa, di un giornalismo che sapeva mettere insieme cronaca e aneddotica in quelle storie piccole intrise di umorismo e ironia che davano visibilità anche ai più umili. Manca, a mio parere, una sorta di gazzettino che i più moderni mezzi di comunicazione non riescono a sostituire. Probabilmente sono rimasto indietro e forse non c’è più nemmeno quella tipologia di lettore, ma un certo vuoto mi pare ci sia. Ce ne accorgiamo quando spostiamo il discorso delle “news” (troppo spesso “fake”) al fatterello quotidiano, alle chiacchiere del borghetto, della piazza, del paese. Penso che il nostro mondo abbia bisogno di parlare scrivendo. Passare da un “tweet” a una lettera è difficile, poiché scrivere significa pensare. Credo che lentamente occorra riscoprire le nostre migliori qualità, fra cui quella del comunicare, di scambiarci pensieri e progetti, non limitandoci a Facebook e affini. Chissà se il mondo sarebbe diverso, come cantava Guccini, “s’io avessi previsto tutto questo…”. Personalmente, vorrei un mondo che riesca a cambiare passo, un mondo capace di coagulare davvero le forze in campo e tornare a sorridere, anche se tutto pare remare contro. Per questo non ci si può che affidare a coloro che sono giovani soprattutto come idee e capacità progettuale; se lo sono anche come età, ancor meglio.

“You are the world…You are the word”.

Giuliano Masola, 23 maggio 2020