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Manager, che vuol dire?

di Giuliano Masola.

Le maniche sono rimboccate: non c’è più tempo da perdere. Gli staff tecnici sono già al lavoro, ognuno per le parti di competenza. Certo, dove il batti&corri è appena nato o sta per nascere una persona sola fa tutto, un po’ di confusione compresa. Penso che diversi abbiano avuto questa esperienza, si siano resi conto a posteriori che solo un grande entusiasmo ha potuto far fronte a un compito tanto arduo. Nel 1992 apparve Campione per forza (Mr. Baseball), un film in cui Tom Selleck faceva esperienza con lo Yakyū, il baseball del Sol Levante, con i Chunichi Dragons, la cui divisa ricorda tantissimo quella dei Dodgers. Elliot, questo è il nome del giocatore, non si rende conto di quanto sia diverso il mondo in cui viene a trovarsi; da ciò deriva un comportamento altezzoso, perfino sprezzante. Il suo rendimento è al di sotto delle attese e la squadra, già debole, sprofonda. I suoi rapporti col manager restano costantemente tesi e il suo interprete fa dei salti mortali per evitare il peggio, cambiando letteralmente le risposte maleducate del campione yankee, non sapendo che l’inglese è ben compreso da chi conduce la squadra. Perfino i rapporti con un altro americano in squadra con lui arrivano a incrinarsi. A differenza delle tragedie, dove le cose iniziano bene e finiscono male, nelle commedie alla fine tutto si risolve: Elliot si innamora di Hiroko, che fa fede al proprio nome, “la tua venuta è benedetta”.

È la figlia del manager Uchiyama (un richiamo a Uchiyama Kosho Roshi, maestro buddista scomparso nel 1998), che nella serata in cui Elliot si presenta a casa di lei, rende possibile l’incontro fra due personalità, due mondi che paiono antitetici. Entrambi però si accorgono di avere uno stesso problema da superare: le buone prestazioni di Elliot permetteranno una crescita della squadra e il mantenimento del posto di lavoro per Uchiyama. E ciò avviene: i Dragons vinceranno ed Elliot tornerà in Major League. Ciò che è interessante ‒ oltre e gli aspetti promozionali e comportamentali ‒ è legato alla divisa; i due protagonisti, infatti, riescono a parlarsi chiaramente e a trovare una soluzione una volta in borghese, lontani dal diamante. In campo si sa bene chi comanda; fuori la cosa cambia. Indossare l’uniforme, specialmente per il manager, significa assumersi una responsabilità collettiva; se la squadra non va, il manager salta. Questo ci porta a riflettere sul significato e l’evolversi delle parole, anche perché si tende a utilizzare indifferentemente “manager” e “coach”; in italiano, allenatore compendia tutto, comportando però qualche interpretazione non sempre corretta, Il baseball, così come il softball, è  probabilmente l’unico sport dove manager e coach devono indossare la divisa in campo. Agli inizi, essere manager significava avere la direzione soprattutto finanziaria della squadra, mentre era il “capitano” a dirigere e a fare le scelte in campo. Portava l‘uniforme, poiché spesso era anche un giocatore. Secondo lo storico John Torn, intorno all’inizio del XX secolo, ci fu un cambiamento: manager era definito chi decideva quali giocatori impiegare e fare le scelte in campo: da giacca e cravatta all’uniforme il passo fu breve. La divisa di conseguenza restò; ci fu però chi preferì stare in borghese nel dugout una volta smesso di giocare, come fece Connie Mack dei Philadephia Athletics. Il mantenimento dell’uniforme è rimasto poiché rafforza il rapporto di chi guida la squadra e i giocatori che la compongono: è tanto importante quanto il lanciatore partente, per fare un esempio. Il manager si sente sempre uno dei suoi: “non importa quanti anni hai; nella testa ti senti un giocatore”. Ci sono manager che stanno sempre in divisa, con conchiglia e spike, come Bobby Cox dei Braves: è passato da giocatore a manager e non li ha mai tolti. In un mondo fatto di azioni e reazioni, anche gli spike hanno il loro peso; come si farebbe a sollevare un bel polverone nel box per contestare un giudizio arbitrale? o coprire di terra rossa il piatto scalciando per far capire all’arbitro che giudica male i lanci; basta guardare su internet: ce n’è per tutti i gusti. Quando si va in scena, si indossano i costumi adatti; nel grande palcoscenico che è il baseball a essere in borghese non si fa una gran figura. Chi ha provato, sa quanto sia difficile condurre in campo una squadra, quanto impegnative possano essere le scelte; la maggior difficoltà, credo, sta nella scelta del modello comportamentale ed educativo che si intende perseguire. La capacità di assunzione della responsabilità trova le sue basi nella preparazione, nell’affidabilità, nella capacità di coinvolgere tutti verso un obiettivo. Nel baseball non si vince o si perde da soli, ma alla fine è uno solo che ha il timone, un comandante che traccia una rotta, ma che è sempre pronto a modificarla pur di superare le avversità. Eppure, in più di un’occasione il manager diventa una specie di “usa e getta” e ciò fa sempre pensare. Anche in questi casi si può evidenziare la forza mentale di chi sa che tutto può cambiare da un momento all’altro, ma si rende conto pure che c’è sempre un domani, una possibilità di riscatto. Proprio per questo occorre affinare talento e abilità e continuare a studiare, approfondire, sforzarsi di migliorare. Il tempo finisce per logorare le nostre capacità, ma ciò non è una buona scusa per togliersi la divisa: usciamo dal diamante per propagandare quel “ vecchio gioco” eternamente giovane! E poi, come diceva Tom La Sorda, “Amo i doppi incontri. Sto in uniforme per più tempo”. Il secondo incontro non ci deve spaventare; ci deve dare anzi uno stimolo in più.

Giuliano Masola, 1° febbraio 2020