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Tre palle, un soldo

di Giuliano Masola. In questi giorni viene ricordato il 75° dell’ingresso di Jackie Robinson nelle Major Leagues, un evento ora super gettonato. Ciò che mi pare importante sono le sue parole: “una vita è inutile se non incide in quella degli altri”. La mia non è una traduzione letterale, ma credo riprenda un concetto fondamentale: nessuno è solo, anche se volesse esserlo. In uno sport in cui si vince e si perde come squadra ciò sembra banale, ma non lo è.

Insieme a Jackie Robinson, c’è un altro talento che sta facendo parlare di sé in tutto il mondo: Rōki Sasaki, lo tsunami dei Chiba Lotte Marines capace di una perfect game seguita da una prestazione importante. Il mondo del baseball, almeno ad alti livelli, continua a sorprenderci, considerando anche tutte le modifiche introdotte per rendere le partite più brevi e competitive, più spendibili commercialmente. Il discorso potrebbe finire qui, ma credo valga la pena di ampliarlo. È innegabile che anche al nostro livello si stiano facendo sforzi notevoli di miglioramento; purtroppo il bacino in cui pescare pare sempre più ridotto e ciò pone seri problemi di prospettiva, di non facile soluzione. Nella grande maggioranza dei casi viviamo di volontariato, con le difficoltà che questo comporta: chi, per quanto tempo, come? Diversi anni fa è stato tentato un salto verso una forma di professionismo che però non ha prodotto i risultati sperati. Questo fallimento ha accontentato gli idealisti, ma ha lasciato quei problemi che ancora oggi si tenta di risolvere. Credo sia banale dire che la base dei nostri problemi sia di ordine economico; ritengo però che le risorse, più che carenti, non siano ben distribuite, sbilanciate a favore dell’attività di livello maggiore. Doversi esperimenti, come nel caso della franchigia, sono stati considerati negativamente, senza però individuare una alternativa. Così, quei giocatori che potrebbero avere uno sbocco e migliorare qualitativamente, ma si trovano in aree quasi deserte come baseball e softball, finisco per regredire, perdersi. Tutti pensano giustamente a far quadrare il bilancio, che però non è fatto solo di entrate ed uscite. Troppo spesso ‒ sottoscritto compreso ‒ ci attacchiamo al passato, mentre il futuro viaggia più rapidamente e concretamente delle nostre azioni. Certamente ci sono motivi pratici che tendono a tarpare le ali; non basta più aver un gruppo di ragazze e ragazzi e qualche genitore di buona volontà per formare una squadra. Oggi una burocrazia sempre più esigente comporta costi elevati e soprattutto una presa di responsabilità che non tutti si sentono di assumere – e ciò non vale solo per lo sport. Mi fa ridere e rattristare, quella “privacy” che impedisce di pubblicare la foto di squadre giovanili, che poi puntualmente finiscono in pasto a tutti attraverso i media, pubblicate dai genitori, oppure ci viene chiesta di “salutare” in occasione di varie forme contrattuali. La dichiarazione di Robinson, quindi, dobbiamo lasciarla perdere? Credo di no, poiché ogni nostro gesto incide sugli altri, sul nostro prossimo. Proprio per questo dovrebbe stimolarci alla ricerca di una maggiore libertà, di una partecipazione meno vincolata da laccioli legali e più vicino alle necessità. Mi rendo conto di apparire un po’ anarchico, ma credo che occorra ripensare seriamente, ad ogni livello prr  fare più e meglio. La maggior preoccupazione di presidenti di società e di organizzazioni similari, è quella di non essere denunciati per non aver fatto questo o quello, dimenticando che nella stragrande maggioranza dei casi fanno tutto a titolo gratuito: anziché compensati, c’è il serio rischio di essere giuridicamente “bastonati”. In tutta sincerità ho sempre fatto fatica a confrontarmi con la burocrazia e ancor più coi burocrati, anche se fra questi c’è qualche mosca bianca. Da tanti anni non partecipo più a convention ed eventi simili poiché in essi non si parla di problemi reali, quelli che ogni giorno ci troviamo ad affrontare e risolvere sul campo. Certamente sono “on the border”, a rischio, ma ciò non mi spaventa. Faccio parte di una esigua minoranza, me ne rendo conto, ma continuo a credere che il miglior slogan sia “semplice uguale a facile”, ma ci siamo veramente lontani. Questi anni di forzata riduzione dell’attività, purtroppo, non hanno portato, a mio parere, a una evoluzione filosofica, a una rielaborazione che ci offra una prospettiva. Ciò è preoccupante poiché tanti sforzi finiscono per essere vanificati per cui, anziché guadagnare, finiamo per perdere consensi. Non è tutto sbagliato, né tutto da rifare, occorre però fare ogni sforzo per capire quali obiettivi di base siano realizzabili, a cominciare dalla nostra presenza nella scuola. Credo che per noi rompere la barriera del colore, significhi superare quella della illusorietà e supponenza. Forse, dovremmo prendere esempio dalle formichine: portare il nostro grosso carico seguendo un preciso indirizzo, nonostante inciampi e deviazioni. Possiamo farlo solo se ci rendiamo ben conto della reale base dalla quale partiamo e di quale altra possiamo raggiungere; l’alternativa è quella di tentare la sorte. Come nelle antiche sagre coi baracconi, con tre palle a un soldo riusciremo ad abbattere tutte le difficoltà?

 

giuliano, 18 aprile 2022