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Montanara dreaming

di Giuliano Masola. Eravamo tanti amici al bar, il Bar Olimpico di via Montanara, tutti o quasi senza soldi in tasca. Avevamo l’età dalla nostra parte e le speranze che tante discussioni accendevano e spegnevano ritmicamente. Adolescenti smaniosi di vivere in modo diverso, specialmente di superare quelle ristrettezze economiche che si traducevano in più di un’occasione nella specialità olimpica del salto in lungo dei pasti.

Eppure il più delle volte bastava essere insieme per superare i momenti più difficili. Slirati, si poteva star poco a tavolino: ci pensava Domenico, barista di origini liguri, a ricordarcelo. Di alternative ne avevamo poche, per cui, in particolare d’estate, vi era un continuo andirivieni fra l’interno l’esterno del bar, per andare a guardare chi giocava a briscola matta, a goriziana o a calciobalilla. D’inverno e nei giorni di cattivo tempo la situazione diventava complessa: ci si trovava un po’ tutti ammassati fra i profumi degli alcolici, il fumo delle sigarette e meno nobili olezzi. Andava così, era una cosa normale. Eppure in quella primavera del 1965 era accaduto qualcosa di nuovo: il baseball stava per decollare, entrando ufficialmente a far parte della U.S. Montanara. Era uno sport nuovo, giovane, che richiedeva la messa in campo di tutte le abilità possedute. Divise e materiale raccogliticcio non creavano difficoltà, salvo i guantoni strausati, in cui l’imbottitura era scivolata in fondo al palmo, lasciando sguarnita la parte dove si doveva prendere la palla. La sacca, costituita il più delle volte da una sorta di T con corde di cuoio lise, non dava certo garanzie di sicurezza: occhiali rotti e occhi tumefatti non erano una rarità. Pettorine che rasentavano i piedi, ma che lasciavano completamente privi di difesa dalla gola in su, una maschera che penzolava da tutte le parti a causa dell’elastico “andato”, schinieri altrettanto vaganti e un guantone sbilenco. Il Quartiere si popolava ogni giorno di nuovi arrivi e i ragazzi cercavano subito di entrare a far parte della compagnia. Così avvenne anche per me, in quei giorni di settembre del ’64 in cui la mia famiglia traslocò a Parma da Collecchio, mentre là c’era la tradizionale Festa della Croce. Sotto quei portici c’era chi tirava una palla, chi cercava di prenderla e magari colpirla con una mazza tenuta insieme alla bell’e meglio; uno spettacolo insolito anche per chi aveva giocato a gerlo come me. La curiosità invitava a partecipare. Del baseball conoscevo ben poco; l’avevo visto giocare nel giardino della chiesa di S. Croce a Parma, dove un compagno di scuola mi aveva portato dopo che ero stato invitato a pranzo a casa sua (si andava a scuola anche il pomeriggio un paio di volte alla settimana; andavo avanti e indietro da Collecchio col “corrierone”). Dire che ci avevo capito qualcosa sarebbe una vera esagerazione. Così, con la più grande innocenza, arrivato nel quartiere Montanara ho chiesto di provare, ma per essere ammessi occorreva avere una sorta di battesimo. Così bardato da ricevitore, con la maschera che si muoveva da una parte e dall’altra e senza occhiali, fui piazzato in un angolo del campo improvvisato a prendere i lanci. Anche “prendere” era una parola grossa; più che altro cercavo di fronteggiare la palla con quello che avrebbe dovuto proteggermi, ma, come ho detto poc’anzi, si trattava di essere esposti a tutto. Il risultato fu drammatico: tutto rotto con una mano gonfia, alla fine ho smesso sotto lo sguardo ironico e compassionevole di tutti. Certo, il nuovo quartiere era per uomini duri, senza paura, che non badava certo a qualche infortunio; anzi andare in giro con un braccio rotto o una mano fasciata era una sorta di medaglia al valore. Non mi pareva giusto arrendermi, e così mi fecero provare a giocare in vari ruoli, fino a spedirmi all’esterno destro, quello dove in genere di battute ne arrivavano poche. Del giro di mazza non ne parliamo proprio, però correvo veramente forte e le poche volte che andavo in base non era raro che facessi punto. Come si dice, l’importante è partecipare e divertirsi. Belle parole! La mia carriera è svanita sul nascere dal punto di vista agonistico, ma questo penso sia stato un bene per il baseball. In campo ci andavo ugualmente, magari per far numero e questo mi bastava. Anche perché, d’estate, dopo la partitella a baseball c’era quella a calcio e lì, sinceramente, andavo meglio. Sono passati cinquantasette anni da quel dolce autunno, ma ancora oggi il ricordo mio emoziona. Mi emoziona e mi fa anche un po’ dì rabbia, tornare al Montanara e non trovare nessuno che lancia o batte una palla. È una realtà dura, cruda per chi ci ha speso tanto in tutti i sensi, ma “sic est”. Certo, si può pensare all’opportunità di partire da prato verde, quello dove, come cantava Gianni Morandi “nascono speranze”, ma sappiano bene, in particolare nel batti&corri, quanto sia difficile realizzarle. Così, non resta che andare di nuovo su quei campi a incontrare ragazze e ragazzi per cercare di farli entrare nel nostro mondo con rinnovata determinazione, in un diamante tutto nuovo. Come si dice, “Se lo costruisci, lui tornerà”.

 

Giuliano, 21 novembre 2021