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“Quarto ball!”

di Guliano Masola. Nel 1983, usciva una raccolta di fumetti di Charlie Brown, in cui campeggia, in copertina, “Quarta palla!”. Purtroppo, per lungo tempo, le case editrici, così come quelle cinematografiche, non hanno avuto dei traduttori esperti del “vecchio gioco”, contribuendo a renderlo ancora meno accattivante al grande pubblico. Un esempio è “Talent of the game” (1992), film in cui uno scout va alla ricerca di un giovane promettente lanciatore, tradotto come “Terza base”. Come si dice, l’importante è che se ne parli. Il baseball, o ancor meglio il mondo di Charlie Brown e soci mettono in luce tutti quegli aspetti che da adulti spesso perdiamo e talvolta rimpiangiamo: la capacità di stare insieme, di prendere i nostri sbagli e le nostre mancanze con un sorriso.

Charlie Brown è un vincente, nonostante tutto, perché non si arrende mai. Ha due grandi passioni: una per lo sport e l’altra per la “ragazza dai capelli rossi” cui non rivolgerà mai la parola. Anche se gli si rimprovera il fatto che perde sempre, tutti gli vogliono bene. Come spesso accade, in squadra c’è chi vede il tutto in modo filosofico, ed è Snoopy, un bracchetto, a farlo. Charlie affronta tutte le stagioni come un campionato senza soluzione di continuità: anche d’inverno va sul monte di lancio per meditare sul prossimo campionato. C’è un po’ di pazzia in lui, ma se Erasmo da Rotterdam quasi cinque secoli prima ne aveva scritto l’”Elogio”, significa che essa fa parte di noi, per cui dobbiamo tener conto. Mentre i personaggi di Schultz sono immaginari, non lo sono invece quelli di Jim Bouton, scomparso nei giorni scorsi all’età di ottanta anni. A soli ventitrè anni è arrivato a lanciare in Major League, dove ha vinto 62 partite, di cui 21 in una stagione, e due nelle World Series. La fase di chiusura del suo movimento di lancio era così violenta da fargli perdere il cappellino; venne chiamato “Bulldog”. “Finito il braccio ha fatto un po’ di tutto, prima di finire definitivamente da parte. Gli piaceva parlare di tutto e con tutti; potremmo definirlo un chiacchierone che sapeva raccogliere storie da chi, come Joe Schultz manager dei Pilots, amava narrarle. Nel 1970 pubblica “Ball Four”, un libro che mette allo scoperto quanto successo dietro le quinte dei Seattle Pilots ‒ una squadra costruita coi prestiti delle altre e con giovani speranze, che esisterà solo un anno e verrà trasferita col nome di Brewers a Milwakee ‒, e degli Houston Astros nel 1969. Si tratta di una pubblicazione oggi ritenuta fra le migliori nel campo del baseball, ma all’epoca suscitò un vero trambusto: spesso vietata perché dava ai giovani cattivi esempi e perfino bruciata. Nella prefazione di una edizione degli anni Ottanta, Bouton, scrisse che i ragazzi leggevano il suo libro di notte, alla luce di una pila, nascondendosi sotto le coperte. “Quarto ball!” è la peggior chiamata che un lanciatore vorrebbe udire, ma per Bouton fu il sintomo di un successo, poiché riuscì a mostrare l’altra faccia della medaglia: scherzi di cattivo gusto, contrattazioni, comportamenti sessuali, uso di droga, e altro. Per esempio, nel 2010, scrisse di Mickey Mantle, osannato campione degli Yankees: “Ho parlato di lui come un bevitore e amante delle orge. Lo sapevano tutti, ma nessuno lo diceva pubblicamente. La cosa strana è che ciò che ho scritto di Mantle è poca cosa a confronto di quanto Whitey Ford e altri, nei loro libri, hanno ammesso di aver fatto. Se ho la possibilità di parlare e di porre in discussione la personalità di un giocatore, mi sento orgoglioso di farlo”. I fan però vogliono eroi e idoli, pur sapendo bene quanto questi abbiano delle debolezze; che l’anatema dei difensori della “baseball church”, sia piombato su Bouton non c’è da meravigliarsi. Quando fu assegnato ai Pilots, alla fine del ’68, Jim disse di esserne contento, ma in realtà non si trovò a suo agio. Era un giocatore di una generazione nuova, di quelli che leggevano libri o giocavano a scacchi durante le trasferte, che esprimevano il loro giudizio sui diritti civili, sulla guerra del Vietnam e parlavano di religione. Per la verità non era il solo a portare un vento di cambiamento, una maggiore consapevolezza di non essere soltanto delle macchine da strike o da fuoricampo; uno di questi era Joe Pepitone, che Bouton incontrò una volta approdato agli Yankees. Jim rimase in Major League solo otto anni, ma i suoi scritti, il suo pensiero e il suo atteggiamento hanno lasciato il segno. Nel ’68 si recò a Città del Messico per protestare contro la presenza del Sud Africa, in cui vigeva ancora l’aprtheid; non a caso i duecentisti afroamericani Tommie Smith e John Carlos, primo e terzo posto, saliti sul podio, alzarono il pugno chiuso col capo chinato per protestare contri chi faceva ‒ e fa ‒ di tutto per limitare, se non addirittura togliere diritti alle minoranze. L’accoppiata Charles Schultz-Jim Bouton può essere azzardata, ma credo che entrambi mirino a un comune obiettivo: in un processo di evoluzione, di crescita ‒ anche se Charlie Brown resta sempre un ragazzino ‒ sono molto importanti il non dare mai nulla per scontato, imparare a superare le apparenze. Si tratta di un esercizio che si può fare da soli, ma come ci insegnano entrambi gli autori, è meglio farlo all’interno di una squadra, poiché solo dallo stare insieme emergono domande e vi è l’opportunità di avere risposte. Il quarto ball può essere una macchia per il lanciatore, ma è una possibilità per il battitore. In un gioco dove la ricerca dell’equilibrio fra attacco e difesa è una costante, dobbiamo essere pronti a ogni evenienza. Soprattutto, non dobbiamo aver timore nel mostrare anche il lato meno simpatico di noi stessi, quello che non vorremmo vedere, se può aiutarci a migliorare. Come ha detto Jim Murray, “Il Baseball ti attrae poiché, monotono come può sembrare, ha il fascino che deriva dal rimettere tutto in discussione”.

Perché non farlo?

Giuliano Masola, Cannitello 14 luglio 2019