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Un piatto di Baseball

di Giuliano Masola. Andare allo stadio, spesso, significa non solo gustare l’incontro, ma anche mettere qualcosa sotto i denti. Chi è andato a vedere anche una sola partita di baseball in America o in Giappone probabilmente si sarà lasciato attrarre da qualche variegato hot dog, alette di pollo, sushi d’occasione, patatine, fette di torta ipercalorica e zucchero filato multicolore (per i più piccoli s’intende). Mettere qualcosa sotto i denti e bere qualcosa aiuta a vivere i cambi di campo con più distensione. Permette, soprattutto di familiarizzare, a cominciare dalle battute scambiate coi venditori. Il baseball fra i suoi antenati ha giochi da ragazzi, ma anche, più nobilmente, vista l’origine britannica, il cricket, comprese le soste per il tè. In un continente da conquistare non c’era tanto tempo per giocare, per cui ci si adattò alle circostanze. Tutto doveva essere abbastanza semplice, divertente e l’attrezzatura limitata all’essenziale: un bastone, una palla confezionata con quel che c’era, dei sassi da porre come base. Anche il numero dei giocatori era variabile: giocava chi c’era, con l’unico accorgimento di averne un numero uguale per squadra; anche il numero degli inning poteva variare. Solo nel 1856, i Knickerbrokers, dopo lunghe discussioni, decisero per nove giocatori in campo e nove inning. Un tema rilevante era quello del piatto di casabase. Ancora sul finire dell’Ottocento, mentre il lanciatore, si poteva muovere all’interno di un rettangolo posto a una quindicina di metri dal battitore, il piatto doveva stare ben saldo e fermo e per fare ciò si utilizzava qualsiasi cosa di una certa consistenza: un pezzo di metallo, di marmo, una pietra liscia, perfino una lastra di vetro, con un unico obbligo: la forma circolare ‒ un piatto appunto ‒ e un piatto i pionieri lo portavano sempre con sé. Pur cercando di sistemarlo a livello del terreno, il piatto finiva per sbordare sempre un po’, per cui il calpestarlo, e soprattutto scivolargli contro, comportava dei rischi, considerando anche il numero altissimo di punti che venivano segnati ‒ intorno al 1840 anche cento complessivi, in soli sei inning. Con quel piatto tondo, ma molto duro, contusioni e ferite erano normali. Intono al 1880 si decisero modifiche importanti: l’uso di un piatto di gomma (invenzione di Robert Keating) o di marmo e una forma quadrata, in linea con le basi; qualche anno dopo, nel 1888 si stabilì anche la misura: 32 cm. per lato). La situazione, per i corridori lanciati a punto migliorò, ma non più di tanto. Fra l’altro, si creò subito un problema: come si poteva giudicare un lancio quando la palla doveva passare per un singolo punto? La soluzione fu trovata dando una forma squadrata alla parte rivolta al lanciatore, in modo da poter decidere meglio gli strike: la forma pentagonale che ancora oggi utilizziamo.

Esagerando un po’, si è passati dalla cucina tradizionale alla “haute cuisine”, alla moderna scienza della ristorazione, dove l’apparenza, il modo di presentare piatti e ambiente, raggiunge forme artistiche. Il nostro baseball di questo, però, non se ne è quasi accorto: si ancora alla tentata vendita, spesso di non si bene cosa. Come diceva un mio docente, ciò che cambia non è tanto la bellezza, nel nostro caso del gioco, quanto il giusto: lo tocchiamo con mano ogni giorno. Il tema è proprio questo: come facciamo per seguire, o ancor meglio anticipare i gusti, in pratica per “vendere il prodotto”, al fine di fare avvicinare più persone possibili al nostro amato gioco? Ognuno di noi ha le proprie idee e, come troppe volte succede, le tiene per sé, nel timore che gli altri gliele contestino. Troppo spesso si lascia che siano gli altri a pensare per noi, per poi mugugnare, ovviamente. Eppure il “vecchio gioco” si rinnova ogni giorno, in modo impercettibile. Noi abbiamo tante difficoltà, facciamo una enorme fatica per far vedere che ci siamo, ma a livello mondiale la realtà e ben diversa. Certo, la cucina tradizionale, quella della nonna o della mamma, non si discutono, ma se abbiamo ospiti che vengono che magari arrivano da altre parti, dobbiamo tener conto anche delle loro realtà. Un piatto di maccheroni può essere d’obbligo, ma assieme a quello possiamo mettere qualche altro piatto per far sentire l’ospite un po’ a casa sua. Non è facile, ma dobbiamo renderci conto che la realtà va affrontata in qualunque situazione, come a tavola. Una canzone portata al successo da Johnny Dorelli diceva: “Aggiungi un posto a tavola / che c’è un amico in più / Se sposti un po’ la seggiola / stai comodo anche tu…”. Oggi ‒ e questo avviene anche nel nostro sport ‒ quasi nessuno vuol stare un poco più stretto per far posto al nuovo arrivato: anzi, cerca di nascondere la sedia per essere certo che non venga occupata. Eppure, credo che ci sia una forza di fondo in grado di superare anche questa situazione, una volontà e, diciamolo pure, una fede che ci permette di far fronte anche alle maggiori difficoltà. Ma per farlo, dobbiamo dare luce e corpo alle nostre idee; certamente non troveremo tutti d’accordo, ma solo attraverso il confronto faccia a faccia e lo scambio di esperienze si migliora. Il piatto è sempre lì, in attesa di essere colmato dai nostri sforzi, dalla nostra volontà e semplicità. Come disse Humphrey Bogart, “Un hot dog allo stadio è meglio di un roast-beaf al Ritz”. Sono d’accordo, con una variante: pane e salame.

Giuliano Masola, 23 febbraio 2019