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C’è un posto per tutti… anche per il Baseball

di Giuliano Masola. Una delle più importanti decisioni prese dai Romani fu quella di ammettere tutte le religioni, a meno che non minassero le istituzioni, in particolare la figura dell’imperatore ‒ il Pantheon ne è la dimostrazione ‒; allo stesso modo vi fu il riconoscimento della cittadinanza a tutti i sudditi dell’Impero. Diversi secoli dopo, un altro Impero, però, non ne ha seguito le orme; il baseball, infatti, fra le due guerre mondiali, non ha potuto svilupparsi, nonostante buone premesse. Il compianto Roberto Buganè, cui va tutto la nostra riconoscenza per aver creato un Archivio Storico in ambito FIBS, è riuscito a raccogliere, anche per quel periodo, documenti significativi. Fra la fine degli anni Venti e l’inizio dei Trenta, il baseball venne insegnato dall’Opera Nazionale Balilla, sulla base di un Regolamento di tredici pagine. Nel 1932, Attilio Poncini, in Giuochi ginnastici e presportivi; metodologia e descrizione, dedicò ben ventiquattro pagine al batti&corri. Un regime che mira a un impero, deve mostrare la sua grandezza, anche nello sport, con la costruzione di stadi, palazzi e opere che lasciano il segno. Fra le tante statue che abbelliscono il Foro Italico e che in gran parte fanno da corona allo Stadio dei Marmi, vi è un’opera di Aroldo Bellini che rappresenta un giocatore di baseball. Per la precisione, si tratta di un ricevitore con il suo armamentario, che pare appoggiarsi a una mazza: un novello gladiatore, in linea coi desideri di romana potenza dell’epoca. Può sembrare incredibile, ma nel 1931 il baseball a Roma era conosciuto e veniva praticato nella Accademia della Farnesina, adiacente allo stadio. Si trattò di una brevissima apparizione: il nostro amato gioco sarebbe ricomparso solo nel 1943, con gli sbarchi degli Alleati, prima in Sicilia e poi fra Anzio e Nettuno. È difficile comprendere il mancato impegno per fare diventare anche il baseball, nel fatidico Ventennio, uno sport da diffondere, trattandosi di una attività sportiva che richiede l’uso di ogni parte del corpo, oltre che della mente (probabilmente, questo secondo aspetto era fonte di preoccupare). Eppoi, mazze e bastoni erano di uso frequente, anche se non sempre usati per colpire una palla. Per il nostro baseball è stata una vera occasione mancata, poiché avrebbe avuto il supporto di tanti nostri emigrati che, proprio nello stesso momento, mostravano tutta la loro bravura sui diamanti. In quel periodo, infatti, l’Italia era ancora ammirata dagli americani, dopo il grandissimo successo della trasvolata atlantica del 1927 e di quelle successive, ancor più spettacolari, anche se offuscate da qualche lutto. Certamente usare termini stranieri non era di moda, e non lo è stato neppure successivamente, visto il termine “pallabase” utilizzato per tanti anni. È importante sottolineare, però, che anche in quei tempi difficili c’è stato qualcuno che ha tenuto la fiammella accesa e, quando è emersa l’opportunità, è tornato a farla risplendere. In ogni caso, per chi desidera andarla a vedere, la statua del giocatore di baseball è collocata vicino all’ingresso alla curva Nord dello stadio Olimpico; purtroppo, non è tanto riconoscibile dai più, visto che qualcuno ha pensato che si trattasse di uno schermitore. Riprendere frammenti di storia può sempre essere utile, per ricordarci da dove veniamo, ma la memoria non basta. Se vogliamo procedere e sperare di non soggiacere alle avversità, dobbiamo cercare di guardare avanti, porci degli obiettivi sfidanti, ma raggiungibili. Ogni stagione ci insegna qualcosa, ma non sempre ciò si traduce in azioni correttive e migliorative per la successiva. Spesso, ci si deve accontentare più del numero dei probabili giocatori, che della loro qualità iniziale e, soprattutto della loro possibilità di accrescere le loro abilità. Nei mesi scorsi, mi è capitato di sentire un allenatore che chiedeva ai suoi lanciatori se faceva loro male il braccio: tre su quattro erano avrebbero volentieri fatto a meno di salire sul monte. Trattandosi però di una partita dove la differenza qualitativa era evidente, l’allenatore li ha fatti lanciare ugualmente, ma il dubbio resta: il problema era dovuto a una non corretta preparazione? Specialmente a livello giovanile, la differenza fisica si fa sentire, anche se la crescita spesso avviene a scapito della motricità, per cui occorre tener conto che non tutte le componenti fisiche crescono in modo omogeneo, per non parlare di quelle psichiche. Anche per questo deve esserci il convincimento che il “devo vincere” può diventare controproducente anche nel breve termine. Certo, vincere fa bene, ma non basta trasvolare gli oceani per diventare un campione, se non si procede per gradi. La cosa più difficile di tutte è operare delle scelte e, spesso, si segue maldestramente quanto ha detto Casey Stengel: “Ragazzo, vorrei averti con me quest’anno, ma dobbiamo vincere il campionato”. Ricordiamo, però, che Stengel poteva contare su un lunga lista di giocatori, e questo non è proprio il nostro caso. Dal punto di vista tecnico, e non solo, il nostro obiettivo dovrebbe essere quello di lavorare in prospettiva, dalla sgrossatura alla rifinitura, cercando di avere i tecnici giusti per ogni fase. Altrimenti, come spesso vediamo, molti potenziali bravi giocatori finiscono per dover smettere, accrescendo le già tante difficoltà in cui ci dibattiamo. Come diceva Tom La Sorda, “Dirigere una squadra è come tenere una colomba fra le mani. Se la stringi troppo forte: la fai morire. Se non la tieni abbastanza, vola via”. Penso che tutti noi vorremmo far volare la colomba e vederla tornare fra le nostre mani, più viva che mai.

 

Giuliano Masola

28 ottobre 2018