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Ricordando “il Bambino” Babe Ruth

di Giuliano Masola. Settanta anni fa, il 16 agosto del 1948, George Herman Ruth moriva per un cancro alla gola. Colui che, al di à delle classifiche, è considerato il più grande giocatore di ogni tempo, al momento della scomparsa aveva cinquantatre anni. Le sue ultime apparizioni sono del 1938 come manager dei Brooklyn Dodgers; pochi anni prima nei Boston Braves aveva indossato la casacca dei Boston Braves, venendo soprattutto utilizzato come attrazione. Forse, più che della sua incredibile carriera ‒ da ragazzo ingestibile affidato ai Saveriani della St. Mary’s Industrial School for Boys di Baltimora, sua città natale ‒ alle ultime presenze come giocatore, interessa quello che ci ha trasmesso. Babe e Bambino sono sinonimi: Ruth venne chiamato così nel 1914, quando partecipò allo spring training dei Baltimora Orioles, squadra allora militante nelle leghe minori. Il presidente della stessa si era preso la responsabilità di fare uscire il giocatore dall’orfanatrofio, per cui il giovane prospetto diventò “Dunn’s Babe”, il bambino di Dunn. Per noi è interessante il fatto che si usi bambino, in italiano; come accade in casi simili, è difficile stabilirne il motivo. Campanilisticamente, è bello pensare che tanti italiani di Nuova York facessero proprio quel giocatore che sapeva unire alle grandi gesta sportive, una umanità a tutto tondo, col suo comportamento, talvolta spiazzante, con le sue dichiarazioni non sempre puritane, col modo di gestire i rapporti personali. George Herman era un ragazzo che non voleva crescere, un po’ come Peter Pan. A chi un giorno gli chiese cosa avrebbe fatto da grande, rispose di essere tanto sconvolto dall’idea da rimuoverla. Gli interessava solo una cosa: giocare a baseball. Nonostante la grande carriera e i tantissimi soldi guadagnati e spesi, restava un fanciullo. Nella sua vita (fra le tante biografie suggerirei “My dad, the Babe; growing up with an American hero”, scritto dalla figlia Dorothy), George Herman Ruth ‒ e in questo traspariva l’antica origine tedesca ‒ non si preoccupò mai di nascondere o abbellire il suo passato, anzi si vantava, per esempio, di essere diventato un bravo calzolaio coi Saveriani, sottolineando sempre quanto padre Matthias, che gli aveva insegnato il baseball, gli fosse stato vicino.  Ciò che però fa di lui un grande del baseball, e non solo, è il suo cuore. Era portato alla esaltazione e all’esagerazione, restando però sempre se stesso. Probabilmente, il suo più importante lascito è una lettera che ormai da troppo tempo è stata messa nel cassetto da quelli della mia generazione e forse raramente letta da quelle che l’hanno seguita. Comincio, purtroppo, a vivere di ricordi, momenti di cui vi faccio partecipi, per cui spero di non annoiarvi se la ripropongo. Ascoltami Jimmy, stai commettendo un grosso sbaglio a non interessarti di baseball. “È il più bel gioco del mondo e ogni uomo dovrebbe sentirsi orgoglioso d’averci qualcosa a che fare. Non importa cosa; anche semplicemente sedersi sulle gradinate dello stadio e gridare alla squadra del cuore di farsi sotto e di battere un fuori campo. Per giocare a baseball occorre essere veri uomini. È il gioco più completo che si conosca al mondo e per riuscire bene occorre saper fare di tutto. Bisogna essere robusti e coordinati nei movimenti, bisogna possedere velocità, intelligenza, fegato e grinta. Soprattutto grinta ragazzo; perché se tu, anche per un solo attimo, mostri timidezza, i giocatori avversari ti spazzolano la testa con lanci velocissimi, i corridori ti fanno a fette con i ferri delle scarpe e le stesse riserve, in panchina, ti prendono in giro fino a distruggerti. In una partita di baseball non puoi mollare neppure un attimo. Devi spendere ogni briciola delle tue energie e devi usare, con la massima accortezza, il tuo cervello. Se tu sbagli una palla in aprile ti accorgi poi, magari in settembre che quella palla costa il campionato alla tua squadra. Non puoi permetterti mai distrazioni né rilassamenti. Quando sei alla battuta o corri sulle basi, ti devi rammentare che contro di te ci sono nove uomini in campo e un robusto cervello in panchina, quello del manager avversario, che cercano in ogni maniera di farti fare la figura dello sciocco. Non è mai esistito un gioco più adatto del baseball per misurare l’autentico valore di un uomo, quanto a fegato, prontezza, velocità, intelligenza. Il baseball è un gioco che assomiglia alla vita e che alla vita ti prepara. È un gioco di squadra e individuale nello stesso tempo. È un grande gioco. Ognuno di noi, che cammina nella vita, sarà più pronto ad aiutare un compagno se sul campo di baseball avrà imparato che un lanciatore può lanciare anche il suo cuore insieme alla palla e che qualcuno dovrà pur fermare in qualche modo le palle radenti e qualcun altro arrampicarsi sul recinto del campo per agguantare quelle al volo e poi andare a battere e fare qualche punto, altrimenti il lavoro del lanciatore non sarà servito a nulla. È come in una famiglia, in un gruppo di fratelli che lavorano insieme per raggiungere la stessa meta. È l’unico gioco al mondo che non hai bisogno di giocare per sapere quanto sia bello, nobile e leale”. Quanto sarebbe bello che quell’“Ascoltami” finisse per sfociare in un grido comune, in una volontà comune!

Vorrei concludere, salutandovi dal bel mare della Calabria, fra Scilla e Cariddi, con qualche altra parola del Bambino, all’ombra del quale siamo cresciuti: “Lou [Gehrig] ha detto di essere stato l’uomo più fortunato del mondo… Io mi considero, un po’ da pazzerello, l’uomo più fortunato che sia entrato in scivolata nel XX secolo”.

 

Giuliano Masola, Cannitello, 7 agosto 2018.