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Chi ha scoperto l’acqua calda?

di Giuliano Masola. Si ritiene che l’uomo abbia iniziato a servirsi del fuoco 12 mila anni fa; l’acqua calda diverso tempo dopo e, certamente non per fare il bagno, almeno in una prima fase, considerando che regine e imperatrici preferivano immergersi nel latte. Per noi un bel bagno caldo è qualcosa di scontato; la possibilità ci deve essere, anche negli spogliatoi. Purtroppo non è così. L’acqua è un bene prezioso, e scaldarla costa; poi se la temperatura lo consente, meglio una doccia rinfrescante. Terminata la partita, sudati o bagnati, occorre darsi una buona ripulita: un bello scroscio d’acqua serve anche da relax. Sappiamo benissimo quanto si fatichi ad avere chi fisicamente opera affinché tutto funzioni; campo che vai, situazione che trovi. Ci si potrebbe meravigliare che, dopo circa settanta anni di baseball organizzato, possa capitare di doversi cambiare su una panchina a bordo campo, ma non è così. Il motivo è semplice: chi ha la chiave dello spogliatoio non si è visto, per cui di acqua, calda o fredda che sia, non se ne parla. E allora che si fa, andiamo tutti a casa? Alla fine, ci si arrangia in qualche modo, si gioca e poi si scrive nero su bianco quanto avvenuto; ci sarà poi chi provvederà a sanzioni e ammende. Tutto normale, o quasi. Il vero problema nasce dalla stesura del rapporto, da redigere in forma sostanzialmente giuridica. Personalmente mi chiedo sempre se e cosa devo o non devo scrivere. Ciò che mi blocca è l’esperienza fatta in tanti anni di vita societaria e non, per cui mi rendo conto delle difficoltà e, magari sbagliando, penso che multe e sanzioni non portino alla soluzione del problema. Così, anche a me un giorno o l’altro arriveranno formali reprimende per non aver rispettato un preciso protocollo, soprattutto per aver peccato di superficialità… (pur non essendo americano, non resterà che avvalersi del Quinto Emendamento). Se dopo tre generazioni siamo ancora in queste condizioni, la riflessione non può essere che profonda e ad ampio raggio. Certo, l’iscrizione ai campionati comporta dei doveri, oltre che dei diritti. Vediamo però quotidianamente quanto sia difficile ottemperare ai primi e valersi dei secondi. Le iscrizioni spesso avvengono, soprattutto a livello giovanile, quando le formazioni non sono ancora completate, quando può esserci più speranza che realtà. Dopo poche partite dall’inizio del campionato, i problemi, soprattutto numerici, si evidenziano. Troppi incontri si trasformano in amichevoli, talvolta anche per una insufficiente comunicazione all’interno delle stesse società. Ogni anno si assiste al ricambio di dirigenti e allenatori, per cui l’effimero diventa norma. Certo è difficile per un genitore seguire una squadra diversa da quella dei propri figli e restare a lungo nella società, ma senza questo passo non si riesce a costruire nulla. La buona volontà non manca: se sopravviviamo, lo dobbiamo a tutti coloro che dedicano il loro tempo al batti&corri, pur tra mille imprevisti. Affidarsi al volontariato, però, significa vivere alla giornata, non guardare al medio e lungo periodo. Il tirare avanti, anche nella sua forma più eroica, non risolve. Certamente diventa difficile trovare una soluzione: siamo in pochi e sostanzialmente “slirati”: pigmei di fronte ai giganti dello sport. Pur non essendo il momento di illudersi, può essere quello di dare corpo a una fase di ri-formazione. Mi rendo conto della noia che possono provocare certi scritti che rivangano fatti degli albori del baseball, ma senza lo zoccolo duro della storia non si va avanti. Abbiamo lottato per certi ideali che ora paiono superati; forse abbiamo perso, ma abbiamo combattuto, anche sui campi da baseball. Il mondo non ci esclude, se noi non ci escludiamo dallo stesso. Abbiamo subito una vera grande sconfitta ‒ in realtà, una specie di harakiri ‒ quando ci siamo illusi di potere essere “grandi”. Chi lo era, e lo è (calcio, basket, pallavolo, rugby, e non solo), ha rintuzzato in brevissimo termine le nostre velleità, con mezzi, a mio parere, ben poco sportivi. Forse non torneremo a essere dei competitor per gli sport più popolari e danarosi, ma potremmo migliorare in professionalità e credibilità. Continuo a credere che ciò si possa attuare solo recuperando unità di azione e di intenti. Parlando della nostra zona, vediamo quanti problemi ci sono, quante tensioni vengono mascherate da fair play di facciata: ci si parla, ma non ci si ascolta; si dice, ma non si esprime la propria idea. E non è colpa di questo o di quello: è nostra. Dobbiamo rimetterci in cammino, consapevoli dei nostri limiti, ma anche di una grande volontà. Nel giro di qualche mese, ancora una volta i campionati saranno finiti. Anche se ci saranno formalmente dei vincitori, ho il dubbio che continueremo a essere tutti sconfitti, se non ci metteremo intorno a un tavolo, collegando e finalizzando le forze di cui disponiamo. Credo che si tratti di etica e di responsabilità, poiché non possiamo convincere ragazze e ragazzi a giocare con noi, se non siamo in grado di offrire loro un credibile futuro: imbrogliamo loro e noi stessi. Che ci piaccia o no, la nostra è una continua battaglia per la sopravvivenza e la difesa dei nostri valori. “Tutti dicono la stessa cosa/ E pregano affinché finiscano/ questi momenti assurdi/ Come i nostri padri hanno fatto prima di noi/ vinceremo questa guerra non voluta/ I nostri figli così godranno/ del Futuro che gli avremo donato” (da “We shall overcome”, Jack Buck, cronista sportivo, 12 settembre 2001).

 

Giuliano Masola

10 giugno 2018