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OLIMPIA

di Giuliano Masola. Tanti anni fa, ho trascorso le vacanze, traversando la Grecia e i Dardanelli, per arrivare sino a Troia (in Turchia). Lungo il percorso, mi sono fermato anche a Olimpia, ma purtroppo uno stiramento mi ha impedito di correre il famoso “stadio”. Persa l’occasione della vita, l’unica soddisfazione è stata una interminabile e bella cena, accompagnata da un corposo vino: alla fine cantavo in greco. Ero andato nell’Eallde convinto di vedere quanto i libri di storia mi avevano fatto immaginare, ma in realtà c’è voluta molta immaginazione per vedere oltre quelle poche colonne rimaste in piedi. Le guide per il turista moderno, spesso, sono volgono più la loro attenzione ad alberghi e ristoranti, che alla reale situazione. Per superare la possibile parziale delusione, ho ripreso i libri per capire quanto poteva essere accaduto. Pausania, vissuto nel II secolo d. C., può essere considerato il primo scrittore di manuali per il turismo. La sua “Periegesi”, purtroppo incompleta tratta in particolare di alcune regioni della antica Grecia, soffermandosi sugli aspetti storici e geografici: conduce il potenziale turista passo dopo passo. Dai suoi scritti siamo informati di opere artistiche e letterarie ora scomparse, così come sappiamo i nome di vincitori delle Olimpiadi dalle gesta tanto celebri da essere immortalate sul frontone dei templi. Il mito è spesso all’origine di avvenimenti che i secoli non riescono scalfire: dal 776 a. C. a oggi, pur con lunghi periodi di interruzione, si è sempre fatto riferimento ai Giochi, momenti in cui anche le più interminabili guerre venivano sospese; l’Olimpiade (periodo di quattro anni) è stato utilizzato per molto tempo per indicare la data. Il valore dei Giochi non è solo sportivo: è soprattutto simbolico e propagandistico, altrimenti non si capirebbe perché si affrontano tante spese per organizzarle, sapendo fin dall’inizio che bilancio economico sarà in rosso. Le Olimpiadi moderne sono iniziate nel 1896, ad Atene, grazie all’infaticabile opera del barone Pierre de Coubertain. Purtroppo, in età contemporanea, lo spirito olimpico non è stato sempre in grado di far superare, o almeno sospendere, contese e guerre come nell’Antichità. Eppure, ciò che avviene in quei giorni di competizione sportiva ha un altissimo valore. Nel 1936, a Berlino, Jesse Owens un ventitreenne di colore, figlio di un povero agricoltore del Sud degli Stati Uniti, vinse quattro medaglie d’oro, facendo saltare, almeno in quel momento, il mito della superiorità della razza ariana (ironia della sorte, fu più considerato in Germania che negli Stati Uniti, dove il colore ha sempre costituito una barriera). Ciò che più ci interessa è che la partita di esibizione del 12 agosto 1936 richiamò circa 125 mila spettatori!: la curiosità dei tedeschi è stato certamente grande. Per la cronaca, i World Champions sconfissero 6-5 gli U.S. Olympics. Le Olimpiadi per quanto grandi, purtroppo, non impedirono né secondo conflitto mondiale, né tanti altri conflitti successivi. Anzi sono diventate un po’ una buona occasione per qualche forma di ostracismo: un contendere nella contesa. Nonostante ciò, nel nostro piccolo, dovremmo essere orgogliosi del fatto che nella presenza del baseball ai Giochi olimpiaci c’è tanta Italia. Il più grande propugnatore, negli anni Trenta del secolo scorso è stato un Mark E. Travaglini, cognome di chiare origini italiane, autore di “Olympic baseball 1936: was es das?” (il titolo metà inglese e metà in tedesco evidenza le sue motivazioni). Il suo impegno, però, ebbe un successo parziale, a causa del precipitare degli eventi: nel 1940, quando i Giochi si sarebbero dovuti tenere a Tokio, la guerra era già in atto ormai su tutti i fronti. Per ritrovare il baseball alle Olimpiadi, abbiamo dovuto attendere il 1992, quando, grazie anche al grande impegno di Bruno Beneck e di Aldo Notari si giunse alla realizzazione di un sogno: il baseball e il softball italiano potevano essere sotto gli occhi di tutto il mondo. Certamente ottenere il diritto alla partecipazione ai Giochi comporta un notevole impegno, soprattutto quando si tratta di squadre, piuttosto che di singoli atleti. La nostra è una disciplina che richiede tanto lavoro, per cui lamentarsi, piangere e strillare senza proporre e trovare una soluzione di prospettiva fa perdere solo tempo. In frangenti come questi, ciò che più lascia da pensare e da dubitare è una notevole immobilità e, permettetemi, un tantino di insipienza. Se ampliamo il raggio di osservazione, ci viene da pensare che le decisioni veramente importanti siano affrontate secondo il principio “Tutto sbagliato, tutto da rifare”, senza approfondirne e spiegarne i veri motivi, anche perché il rischio c’è quella di gettare l’acqua sporca col bambino dentro. Forse questo fa parte di progressiva chiusura, soprattutto verso un possibile futuro sviluppo. Organizzare i Giochi significa affrontare un grande impegno economico e finanziario, utilizzando il cervello, poiché si tratta di trovare e sperimentare soluzioni innovative su tutti i fronti. Sicuramente, chi è chiamato a fare queste valutazioni dovrebbe avere ben chiaro quanto potrebbe derivarne, ponendosi una domanda: cosa posso fare in alternativa? Mi chiudo in casa e gioco nel mio cortile (circondato da alte e spesse mura, si intende)? Non so se, alla fine, il baseball italiano parteciperà ai prossimi Giochi; magari potrebbe farcela grazie a qualche accordo dell’ultimo momento; a Tokio, in ogni modo, qualcuno dei soliti noti troverà il modo di esserci. Il problema serio è che rischiamo di non partecipare neppure a quelle successive, ammesso che il Baseball resti presente. Dobbiamo farci coraggio. Anche se siamo in ritardo per rimboccarci le maniche, nessuno ci vieta di provare: se va male, si può sempre organizzare un torneo di megagolf: le buche – in gran numero e in grandi città – sono lì che attendono.

 

Giuliano Masola

17 marzo 2017