Il settimo posto all’Europeo turco ha riacceso il dibattito. Siamo volenterosi, ma non competitivi. Il vertice non ci appartiene più come in un passato ormai lontano, mentre scuole cestistiche di retrovia ci hanno raggiunto, se non superato. Perché? E, soprattutto, che fare? In attesa dell’avvio della Serie A (sabato), inutile filosofeggiare sulla materia prima (la vocazione di base non manca o quanto meno non è inferiore a quella di altri Paesi) o sul prodotto finito, il nodo più stringente riguarda la catena di montaggio. Che non funziona. Un problema che ha diverse facce. Tre sono quelle principali: il reclutamento (vivai), la formazione e le regole.

ANALISI — Abbiamo approfondito quest’ultimo punto che ci porta a sfatare un luogo comune. I dati dimostrano che il protezionismo non funziona. O quanto meno non ha prodotto i risultati sperati, ma nel migliore dei casi alcune eccellenze in mezzo a tanta mediocrità. Abbiamo preso come punto di partenza la stagione 2001-2002, quella senza barriere, in seguito alla sentenza Sheppard che consente ai club di tesserare atleti extra comunitari senza alcun vincolo. La percentuale di utilizzo degli italiani (con almeno 10 minuti di media e con un minimo di 10 presenze a referto) è del 29,3, vetta superata solo recentemente (2012/13 e 2015/16) con misure iper protezionistiche. Nel decennio di mezzo un innegabile paradosso: più aumentano le garanzie per i giocatori indigeni, meno vengono utilizzati. Nel triennio 2003-2005 almeno 3 contratti italiani e 5 a referto (la “trovata” dei giovani di serie…). Ecco i primi steccati, ma è anche l’epoca dell’argento olimpico di Atene, picco di una generazione che comincia la sua parabola discendente. È lì che bisognerebbe iniziare a impostare un ricambio che non ci sarà. E, col senno di poi, probabilmente anche per colpa delle regole. Il 2006 è l’anno della svolta protezionistica: la Fip, recependo un’indicazione del Coni, impone la norma per cui il 50% del roster dei club di Serie A deve essere composto da atleti di formazione italiana. Risultato: i costi dei nostri giocatori lievitano, mentre il posto fisso abbassa motivazioni e competitività. Così il rapporto qualità-prezzo degli italiani fa sì che i club vivano le nuove norme come un obbligo e non come un’opportunità, virando su strategie esterofile. Morale: la legge, seppur elaborata con intenti costruttivi, ottiene l’effetto contrario. Nel 2006/07 la percentuale di utilizzo degli italiani crolla al 22,4, il dato peggiore degli ultimi 16 anni, creando un trend invertito solo parzialmente dalle norme attuali che prevedono, di fatto, il contingentamento anche dei giocatori comunitari. Il minutaggio degli italiani realmente utilizzati, dal 2010, è tornato a crescere senza però modificare sensibilmente la tendenza e men che meno producendo qualità diffusa. Il campionato che sta per cominciare ci smentirà? Pare difficile.

PARERI — Valerio Bianchini, in un’intervista alla Gazzetta, ha detto che “la globalizzazione ha spinto i club a prendere tanti stranieri mediocri”. Vero. Ma certe regole hanno forse stimolato ad essere più mediocri dei mediocri anche i pochi prodotti dei nostri già disastrati vivai. Se non si vuole sposare la mozione Recalcati: “Liberalizziamo tutto e aumentiamo gli incentivi per chi utilizza gli italiani”, teniamo quanto meno a mente le parole di Zeljko Obradovic, coach del Fenerbahce: “Le quote sono un errore. In campo, come nella vita, il posto te lo devi guadagnare” (intervista alla Gazzetta del 22/1/2015). Magari mettendosi pure in gioco lontano da questa comfort zone che sembra tanto l’anticamera della mediocrità. Prendiamo la squadra del momento, la Slovenia campione d’Europa: solo Dimec e Rebec giocano in patria. Fenomeni (Doncic e Dragic) a parte, gli altri si sono messi a sgomitare tra Serbia, Turchia, Ungheria, Germania, Spagna e Francia. Quello che i nostri non fanno. Preferendo ruoli marginali e sfruttando privilegi che non portano da nessuna parte.
 Vincenzo Di Schiavi