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Barriere

di Giuliano Masola. L’altra sera ho guardato 42, un film del 2013 di Brian Haldegand. Il titolo, rappresentato da un numero, dice tutto ai più. Per chi non lo so il numero 42 era quello della casacca di Jackie Robinson. La sua storia è conosciuta, in generale; in grande sintesi con il contratto fattogli firmare da Branch Rickey, presidente dei Brooklyn Dodgers, la barriera del colore salta. Forse 42 è il miglior film sulla vicenda di Robinson, poiché il regista riesce a evidenziare quante siano state le difficoltà di far accettare un fatto “scandaloso”. 

Buona parte dei Dodgers gli è contro, tanto da provocare l’allontanamento dei più avversi alla sua presenza. Nel film si sottolineano alcune cose, quali le figure umane di Pee Wee Reese, interbase, e di Ralph Branca, figlio di emigrato italiano che guidava i tram. L’America era uscita vincitrice anche dalla Seconda guerra mondiale e si apprestava a diventare la più grande potenza economica mondiale. In un periodo in cui tutto cambia rapidamente, c’è bisogno di uno sforzo collettivo enorme, di un salto di qualità anche di ordine psicologico. Branch Rickey sapeva guardare avanti – badando bene al business –, per cui aveva capito che per avere gli stadi pieni occorreva espandere il mercato. Non solo, poiché nelle Negro Leagues c’erano dei veri talenti, capaci di reggere benissimo il confronto coi bianchi. Un gruppo consistente di giocatori raccoglie firme per non avere Robinson in squadra, ma uno di questi, con grande senso pratico nega la sua partecipazione all’iniziativa dicendo che “Questo è solo il primo…”; insomma, non c’è niente da fare, Il baseball di quel periodo era fatto di emigranti, o figli di emigranti di ogni tipo. In un mondo dominato dai WASP (bianchi anglo-sassoni protestanti) avere la pelle di un altro colore significava essere automaticamente da emarginare. Non a caso, il lanciatore dei Dodgers che proprio non vuol giocare con Robinson viene spedito a Pittsburgh, comunica la cosa agli ormai ex compagni di squadra, dicendo che lo spediscono a giocare con italiano che si chiama “Friddo”. Peccato che di Albert Gianfriddo resti ancora vivida quella sequenza in cui, nelle World Series del 1947, strappa un triplo a Joe di Maggio; l’unico caso in cui lo Yankee Clippert perda la calma e scalci la terra rossa… del lanciatore razzista nulla  Nel 1947, quando Jackie Robinson, scende in campo nelle Majors, la guerra di Secessione è finita da ottanta due anni; meno di quattro generazioni si sono succedute: troppo poco per poter superare contrasti finiti con circa un milione di persone morte o ferite. L’America, quelli che come me hanno sognato attraverso tanti film, soprattutto western, però stava mostrando le forze sufficienti per superare un ostacolo che sembrava insormontabile. Jackie è stato il primo; dopo di lui tantissimi altri. Fra questi, Willie Mays, di cui si festeggia il compleanno in questi giorni, essendo nato il 6 maggio del 1931. Ha giocato per ventitre anni, di cui ventidue coi Pittsburgh Pirates, nella Major League. I suoi record sono impressionanti, tanto da far dichiarare a Ted Williams che la All Star Game era stata inventata per lui; infatti Mays fu convocato ben 24 volte. Quando parliamo di grandi giocatori, però, spesso ne dimentichiamo le origini, umili nella maggior parte dei casi: non ci rendiamo conto di quanto al talento fisico sia stato indispensabile unire una grande forza morale. Will Howard Mays è nato a Westfield, una cittadina afro-americana dell’Alabama, in uno stato non certo tenero con la gente di colore. Il padre, Willie sr.,  era un giocatore professionista, chiamato “Gatto”. A 19 anni l’astro nascente dei Pirates entrò in prima squadra; il resto è storia. Nulla di speciale; si potrebbe dire che di storie così ce ne sono diverse, ma ho qualche dubbio. Sudore, fatica e nervi saldi: senza questi si va avanti poco. Per questo continuo a restare sorpreso dai giudizi affrettati sulle qualità di questo o di quello; campioni, più che nascere, si diventa. Personalmente preferisco quelli che non sono campioni poiché battono tantissimo, segnano tanti punti, o fanno miriadi di strike-out. La mia simpatia va a coloro che con tanta umiltà e perseveranza giorno per giorno cercano di dare il meglio, coloro che sanno tenere equilibrato sforzo fisico e impegno mentale, quelli che una volta esaurita la fase agonistica, hanno ancora voglia di stare in campo, di trasmettere passione ed entusiasmo.Gino Bartali è rimasto famoso per il suo “Gli è tutto sbagliato, l’è tutto da rifare…”. Ma era sempre lì, non mollava mai, andava avanti. Forse, il grande “toscanaccio” sarebbe andato d’accordo con Willie Mays, il cui nomignolo “Say Hey Kid”, che potremmo tradurre con “Dimmi un ciao, ragazzo”, rende l’idea di qualcosa di continuamente fresco, giovane, aperto, disponibile. Con un po’ di amarezza, viene da ripensarea tutte le volte che si sarebbe potuto dire “Ehi, ragazzo… sono con te” a tanti giovani che abbiamo incontrato, e purtroppo perduto, poiché da loro abbiamo preteso troppo. Ragazzi e ragazze che volevano e vogliono giocare, divertirsi…  Spesso si dà la colpa al mondo (in grande sintesi, agli altri), che chiede e pretende campioni. A casa nostra, non si vive di solo baseball, per cui, un approccio più in linea con le aspettative di chi vuol partecipare non guasterebbe. Il tempo, contrariamente alle leggi di mercato, fa perdere valore ai nostri “diamanti”, per cui non dobbiamo lamentarci se, da pietra preziosa, si trasforma in un campo di sterpaglie. Say hey…

Giiuliano Masola 20 maggio 2017