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America, America

di Giuliano Masola. Un titolo di questo genere potrebbe ricordare a qualcuno l’omonimo film di Elia Kazan del 1963 che tratta di un ribelle armeno, che dopo tante peripezie riesce a raggiungere, New York, l’America.

Mi sono chiesto più volte a cosa sia servito e a che cosa serva il Baseball, poiché una cosa sono le passioni e un’altra gli aspetti relativi all’uomo e alla società. Certamente, un gioco da ragazzi praticato e seguito da centinaia di milioni di persone in un centinaio di paesi deve avere qualcosa di particolarmente coinvolgente e importante. In questi giorni, negli Stati Uniti, si festeggia il “Jackie Robinson Day”; tutti i giocatori portano, in segno di rispetto, il n. 42 del campione dei Dodgers. Jack Roosevelt Robinson (Cairo, Georgia, 31 gennaio 1919 – Stamford, Connecticut, 24 ottobre 1972). Il secondo nome è significativo: Roosevelt, in onore di uno dei più grandi presidenti americani. Robinson fu il primo afro-americano a giocare da professionista, grazie al coraggio e alla lungimiranza del presidente di un club che ha sempre guardato avanti e ad ampio raggio: Branch Rickey. Il 15 aprile 1947 Jackie Robinson iniziò la sua grande carriera in prima base, coi Brooklyn Dodgers. Atleta di altissimo rango (a livello college, e non solo, eccelleva anche nel basket, nel tennis, nell’atletica) ebbe il grande merito di non reagire di petto alle tantissime provocazioni, fuori e dentro il campo, traducendo anche nel sociale ciò che il suo allenatore, Leo Durocher aveva detto ai propri giocatori: «Non mi importa se il ragazzo è giallo o nero, o se ha le strisce come una fottuta zebra. Io sono il manager di questa squadra e dico che lui gioca. C’è dell’altro, io dico che lui ci può rendere tutti ricchi. E se qualcuno di voi non ha bisogno di soldi, farò in modo di cedervi». In una New York sempre più affollata di persone in cerca di lavoro provenienti da tutto il mondo occorreva essere chiari e concreti. Il lungo e faticoso percorso che aveva portato Jackie Robinson dalla Georgia alla Grande Mela si rivelò un successo, per tutti. A fine carriera continuò ad affrontare il problema dei diritti umani, soprattutto per coloro che più spesso erano sottoposti a discriminazioni, contribuendo, nel 1964, alla fondazione della Freedom National Bank, una banca di proprietà afroamericana con sede a Harlem. Di Robinson, gli appassionati di baseball sanno tutto o quasi, così come di Joe DiMaggio;  quest’ultimo è conosciuto anche da chi non conosce il “vecchio gioco”, grazie al matrimonio con Marylin Monroe. Anche il nostro “Giuseppe”, figlio di un pescatore siciliano ha contribuito, sotto un certo aspetto, al superamento di barriere. Joseph Paul DiMaggio (Martinez, California 25 novembre 1914 – Hollywood, California, 8 marzo 1999) comprese che occorreva lasciare da parte il fardello dell’emigrante per portare la borsa del cittadino americano. Ciò fece la differenza. Anche se sull’autobus che portava in trasferta i giocatori negli anni Trenta e Quaranta i dialetti del Centro e Sud Italia gareggiavano con l’uso dell’inglese) Joe decise che occorreva fare parte fino in fondo a quella comunità in continuo rivolgimento che è l’America. Non bastava essere un grande campione degli Yankees, ad esempio, per impedire che i propri genitori non ancora naturalizzati, fossero considerati delle specie di spie del governo italiano, durante la Seconda Guerra mondiale. Un “americano” doveva indossare la divisa e, all’occasione, combattere anche i parenti siciliani. Il sogno americano ha sempre richiesto e richiede anche oggi notevoli rinunce e sacrifici; soprattutto una volontà di ferro. La figura di Joe DiMaggio, sia nell’ambito sportivo che nel quotidiano, è simbolica: saltare la barriera significa portare la propria personalità nell’ambito di una comunità che guarda avanti, che lascia al passato i ricordi e la nostalgia, senza però dimenticare. Ciò pare ancora più interessante se ci si rifà ai versi della famosa canzone di Simon e Garfunkel in quel 1968 che risveglia tanta voglia di cambiare, di dare un calcio al vecchiume, di cercare nuovi orizzonti, fare nuove esperienze: «Dove sei andato, Joe Di Maggio? Una nazione volge i suoi occhi desolati verso di te. Che cos’è che dici, signora Robinson? Il Grande Joe ha lasciato ed è andato via». Parole come queste non sarebbero state usate per un emigrato che avesse voluto assolutamente mantenere la propria identità. Per questo Joe non è andato via, è ancora qui, oggi. Certamente superare le barriere è “demanding”, sommamente faticoso, come dicono Oltreoceano, ma s’ha da fare.  Quando si costruisce il nuovo, c’è sempre qualcosa che si lascia, anche se a malincuore. Lasciare, però, non vuol dire abbandonare, cancellare la memoria, ma viverla e mantenerla per ciò che è, per lo stimolo che ci dà. Jackie e Joe, pur essendo due personaggi molto diversi, hanno mostrato ciò che si può fare per vivere insieme, dentro e fuori dal diamante. Perché, come disse Jackie Robinson: «Non sono interessato alla vostra simpatia o antipatia… tutto quello che chiedo è che mi rispettiate come essere umano». “That’s Baseball”, si potrebbe dire. Giuliano Masola 17 aprile 2017