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277 parole

Nei giorni scorsi, nella rubrica “I grandi discorsi sulla storia” di Aldo Cazzullo, sono stati illustrate le parole più significative di grandi personaggi: da Berlinguer a Fidel Castro, da François Mitterand a Benazir Bhutto. Fra questi campioni della politica, incredibilmente, un altro, uno sportivo, un grandissimo giocatore di baseball: Lou Gehrig. Quando ho visto scorrere le sue immagini nei titoli, mi è venuta la cosiddetta “pelle d’oca”. Certo, con l’avanzare dell’età, la commozione prende più facilmente strada. Anche perché, quelli più o meno della mia generazione, soprattutto coloro che hanno fatto parte di squadre giovanili a livello nazionale, fra le preghiere della sera, c’era la lettura della lettera di George Herman “Babe” Ruth, che inizia con “Ascoltami Jimmy…”Faceva parte del rito destinato a chi, nel cuore e nella mente, anche chi non tifava per gli Yankees, aveva collocato tre numeri magici: casacca numero 3, Babe Ruth, 4 Lou Gehrig, 5 Joe di Maggio. Penso che quasi tutti conoscano la tristissima fine di Lou Gehrig, colpita da quella che ora viene chiamata SLA (Sclerosi laterale amiotrofica), fino a pochi anni fa conosciuta come “morbo di Gehrig”. Dal suo discorso, pronunciato il 4 luglio del 1939 (un Indipendence Day alla vigilia dello scoppio della II Guerra Mondiale) alla morte trascorsero circa due anni. I sessantamila che gremivano lo Yankee Stadium quel giorno erano profondamente commossi,  ben consci di quanto una persona di grande valore morale potesse sovrapporsi a quella di un campione indiscusso. “Amici, nelle due ultime settimane sarete sicuramente venuti a conoscenza del difficile momento che sto attraversando, ma voglio dirvi che oggi mi sento l’uomo più fortunato della terra. Sono stato presente sul campo da baseball per diciassette anni e ho sempre ricevuto affetto e incoraggiamenti da voi che siete i miei fan. Guardate questi grandi uomini. Chi di voi non vorrebbe essere al punto culminante della propria carriera solo per paragonarsi a loro almeno un giorno nella vita? Certo che sono fortunato”. Il campione in campo e suoi fan in tribuna; una simbiosi indispensabile per il successo, per chi ha dichiarato di essere l’uomo più fortunato della Terra, quando sa perfettamente che questa terra, fra poco non la vedrà più. Non solo, poiché il messaggio è ancora più forte. Il suo saluto finale “Quindi, concludo dicendo che forse sto attraversando un brutto periodo, ma ho tantissimo per cui continuare a vivere”, è incredibilmente carico di ansia e di speranza. La speranza supera le barriere, i muri; come un fuoricampo è inafferrabile e copre distanze ogni volta diverse. Certo abituati quell’obiettivo di aurea mediocritas  che quotidianamente ci viene additato – peggiore forse della peggior droga – diventa difficile accettare certe affermazioni. Nello spirito e nelle parole di Lou Gehrig, di famiglia tedesca immigrata in America, c’è tanta determinazione e, soprattutto, il desiderio di farcela; c’è la ferrea volontà che lo ha fatto scendere in campo consecutivamente 2130 volte. Certamente, è difficile immedesimarsi in una persone di tale spessore, anche se ciò, probabilmente, deriva dagli obiettivi che ci diamo. In un mondo sempre più virtuale, o meglio, tristemente e pericolosamente fatuo, le difficoltà spaventano, impediscono di guardare oltre il muro, oltre la siepe. Eppure chi conosce il nostro sport, o ancor più lo ama, riesce a comprendere quanta dedizione deve avere anche il più dotato di talento per essere un campione a 360 gradi. Lou Gehrig è scomparso, ma le sue 277 parole, che dovremmo meditare ad una ad una, restano scolpite nella pietra, o meglio nel nostro cuore. Il suo discorso è stato il più conosciuto d’America per tantissimi anni, superato statisticamente solo da quel “I have a Dream”, pronunciato da Martin Luther King al Lincoln Memorial di Washington il 28 agosto del 1963. È difficile stabilire se i discorsi fanno la storia; certamente rappresentano un segno, un indirizzo. Ed è così anche quando noi parliamo alle nostre ragazze e ai nostri ragazzi. Dietro le nostre parole, a ben pensarci, non c’è solo tecnica o regolamento, c’è il nostro cuore.