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Arbitri o Macchine?

di Giuliano Masola. Da qualche anno è stata introdotta, a livello di Major League, la possibilità di poter rivedere un’azione, la cui la chiamata di un arbitro può suscitare dubbi, da parte del manager della squadra che si ritiene penalizzata. La decisione viene presa, tramite un collegamento con gli arbitri in campo, da un gruppo di giudici, lontano dal terreno di gioco, sulle immagini riproposte dai replay.

Prima di allora, le decisioni dubbie rendevano la telecronaca più interessante, attraverso la continua riproposta dell’azione incriminata, quando i giochi erano fatti. Si poteva mugugnare, arrabbiarsi fino al punto di farsi espellere, ma per giocatori e manager non c’era possibilità di ribaltare la chiamata. La possibilità di rivedere le giocate e le relative decisioni arbitrali con buona probabilità riconduce all’esattezza, al giusto. Niente di male, anzi. È importante sottolineare, però, che il tutto è all’interno di regole precise, per cui, ad esempio, un manager che chiede la revisione di un giudizio e finisce per avere torto, per quella partita non potrà più intervenire.Pur essendomi ormai assuefatti a questa, che è diventata una specie di cerimonia, la cosa che continua a colpirmi è l’imperturbabilità degli arbitri che devono tornare sulla loro decisione: li invidio proprio, ma l’America è l’America, arbitro compresi. Non è però tutto rose e fiori. Un lungo articolo su questo tema, apparso nella rubrica della MLB su “The Guardian” lo scorso giugno, si intitola Da “Dio” a “beccato!”. Il lungo declino degli arbitri di Major League. La cosa che colpisce è che il 47% delle chiamate contestate si è risolta a favore del manager richiedente la verifica: una percentuale che fa riflettere, considerando che si tratta di chiamate che non riguardano strike e ball (non contestabili). Il giornalista, che a questo tema associa quello del comportamento degli arbitri in campo in generale, automaticamente fa un parallelo fra vecchie nuovi direttori di gara. È chiaro che il baseball è cambiato, e molto rapidamente, negli ultimi vent’anni, grazie a un lavoro sempre più accurato nella scelta e nella preparazione dei giocatori. Negli anni Novanta, chi lanciava a 90 miglia l’ora era già un gran lanciatore; recentissimamente c’è chi ha lanciato a 110 miglia orarie; anche la varietà dei lanci è aumentata. I battitori, dal canto loro, sono diventati più potenti e atletici, con un giro di mazza dalla velocità impressionante. Per i ricevitori, eliminare i corridori è diventata una impresa sempre più ardua: aver successo nel 40% dei casi è già una cosa considerevole. Di conseguenza, fare paragoni resta sempre molto difficile, anche se ricordare il comportamento di grandi arbitri del passato può essere utile. “Dio” è il nomignolo con cui i giocatori della National League chiamavano Doug Harvey che, dopo aver arbitrato 4000 partite di Major League dal 1962 al 1992, è entrato nella Hall of Fame. Nel 2010, Joe Morgan, che i più appassionati ricordano come grande secondabase, diede di lui la miglior definizione: “Egli era tollerante al punto giusto, anche i giocatori sapevano quanto fosse in grado di tener in mano la partita”. Tollerare non significa permettere, ma comprendere, rendersi conto delle conseguenze, ponderare (cosa rara). Certamente, arbitrare non è facile, anche se si è in quattro o in sei, come ai più alti livelli: sbagli ed errori possono verificarsi in ogni momento. L’errore può dipendere da tante cose, compresa una meccanica arbitrale non bene eseguita. Anche gli arbitri provano tensione, possono essere stanchi, magari essere distolti da un pensiero che attraversa la loro mente proprio nel momento della decisione; sono uomini, non macchine. Il regolamento si studia e si ristudia, la meccanica imparata va allenata e perfezionata; la cosa più difficile è il mantenimento di un costante livello di attenzione. Ciò che gli psicologi “di la da l’aqua” chiamano arousal, cioè il livello di eccitazione, non è facile da mantenere stabile e costante, soprattutto se non lo si collega a una preparazione tecnica e fisica sufficienti; infatti, la stanchezza, sia fisica che intellettuale, può essere un elemento determinante.  L’utilizzo di strumenti sempre più sofisticati anche dal punto di vista delle riprese televisive, se lo si relaziona al fatto che quasi la metà delle contestazioni è accolta, pone il serio  dubbio della presenza degli arbitri fisicamente in campo. Basterebbe mettere un paio d’arbitri a bordo campo con il loro bel monitor super tecnologico, e via. A casabase, nonostante tutte le innovazioni, anche i pensatori più futuristi ritengono prematuro pensare alla eliminazione di chi chiama i lanci, dietro il ricevitore.   Non è fantabaseball, ma si tratta di pensare a una realtà che, dal punto di vista tecnologico potrebbe essere molto prossima. Certo a livello minore questo è ben lungi dall’accadere, anche se l’utilizzo di un sofisticato sistema di ripresa potrebbe sopperire alla ormai endemica di arbitri, almeno come numero, anche  nella nostra parte di Aemilia Felix. Per dare un’idea, fra i residenti a Parma, non c’è un arbitro di baseball “puro”; i pochi sono anche tesserati come tecnici. I motivi sono tanti, forse troppi. Si tratta di un tema tanto delicato quanto importante, che ha bisogno di trovare una soluzione vera e credibile..  Nessuno di noi, penso, sa cosa potrà accadere nei prossimi anni, per cui vale la pena di riflettere su quanto ha detto Harry Waldenstadt, arbitro scomparso nel 2012: “Se mettessero una macchina al nostro posto, cosa le accadrebbe? I giocatori la spaccherebbero a ogni decisione presa dalla stessa: la prenderebbero a mazzate!”. Tranquilli! Non è il caso nostro, poiché non ci sono i soldi per comprare le macchine (già si fa fatica per le palline) e in molti casi, purtroppo, non ci sono neanche arbitri da sostituire. Giuliano Masola febbraio 2017